In questa Polonia che dimentica tutto, portare un po’ di vita ebraica

di Rav Alfonso Arbib

Che cosa significa, dal punto di vista religioso, il viaggio ad Auschwitz? La Shoah è diventata per l’ebraismo europeo un fattore identitario?
Il rapporto tra memoria e istruzione dei giovani

Quale valore e significato religioso hanno i viaggi della “memoria” (o viaggi di istruzione?) Quale elemento deve prevalere? E poi, la Shoah può essere considerata un evento storico che fonda l’identità ebraica contemporanea? Iniziamo dai viaggi. Chiamiamoli “viaggi ad Auschwitz”. In realtà sono un insieme di due cose, due elementi. Un elemento è la conoscenza, un’occasione per fare una full-immersion della storia della Shoah che non si fa normalmente. Col viaggio si riesce in qualche modo a farlo. Dopo di che, c’è un aspetto emotivo che è difficilmente definibile ed è diverso da persona a persona. Non è assolutamente possibile stabilire una reazione emotiva standardizzata della memoria. È possibile solo in un caso, che la si produca “artificialmente”. Se io mi metto a giocare con le emozioni, a quel punto riesco ad ottenere che ci siano trenta persone che piangono in quel preciso momento. Ma non è giusto farlo, è una cosa sbagliata. Se l’emozione è spontanea, ha un senso. E le emozioni sono diverse e non tutte nascono negli stessi momenti. Ci sono persone che non si emozionano ad Auschwitz per esempio. Magari si emozionano dopo, in albergo. Credo che vada bene così. L’emozione “organizzata” credo che ci ponga dei problemi, perché sa di falso. L’ho ottenuta in quel momento, è una cosa momentanea. Questo è un altro problema di Auschwitz, l’esperienza momentanea. Il problema è quello che rimane dopo.

Il significato religioso: per quanto riguarda il viaggio della Scuola ebraica, sarebbe giusto passare uno Shabbat a Cracovia perché la Shoah è stata un’immane distruzione in sé, ma è stata anche l’immane distruzione di un ebraismo di grande vitalità. La Shoah riguarda tutta l’Europa, ma quello che è accaduto in Polonia non è paragonabile ad altro, assolutamente. Nemmeno alle stragi in Russia, con l’operazione Barbarossa, di cui non si parla mai. Con questo non voglio togliere tragicità a quello che è successo altrove. Ma qui siamo davanti a qualcosa di proporzioni immense. Tentare di recuperare qualcosa di ciò che è stato l’ebraismo polacco, anche se in maniera un po’ artificiale, lo ammetto, dato che l’ebraismo polacco non c’è più, personalmente ritengo che sia un’esperienza educativa per i ragazzi. Lo Shabbat a Cracovia è educativo, importante, ed è un’esperienza di vita ebraica. Portiamo un po’ di vita ebraica in un posto in cui la vita ebraica è stata volutamente cancellata. I nazisti se la sono presa con le persone e se la sono presa con i luoghi, pur non rientrando nelle teorie razziali. Hanno distrutto quasi tutte le sinagoghe, quasi tutti i cimiteri…
Secondo argomento, la questione identitaria legata alla Shoah. Io non credo che la Shoah debba diventare fondante dell’identità ebraica, no, assolutamente. Faremmo solamente un gran favore a Hitler. Certo che dobbiamo tentare di identificarci col dolore delle vittime. Tentare di essere partecipi, di essere empatici nei riguardi di quel dolore. Dobbiamo tentare di farlo. Pur nella consapevolezza dell’impossibilità più assoluta di riuscirci. Forse neppure i deportati possono farlo fino in fondo, come dice Primo Levi: in realtà si può comprendere il proprio dolore e non quello degli altri, di quelli che sono stati uccisi. Ognuno di noi vive il proprio ed è difficilissimo arrivare a un’empatia tale che mi faccia provare il dolore degli altri, soprattutto quando il dolore è un dolore allucinante. Non riesco a trovare una parola per definire questo tipo di dolore. Ma che sia impossibile farlo non esclude che non si debba tentare di farlo. Non siamo macchine che studiano solamente libri di storia.

Anche nella storia dell’Haggadah di Pesach c’è l’identificazione con il dolore, il tentativo di identificazione. Anche lì, mangiamo il maror, l’erba amara, perché dobbiamo “sentire” in bocca l’amarezza della schiavitù.
Però, sia quando leggiamo l’Haggadah di Pesach e dobbiamo “sentirci come se noi fossimo personalmente usciti dall’Egitto” sia quando dobbiamo sentirci “come se fossimo sotto il Monte Sinai”, in questi due momenti fondativi dell’identità ebraica, l’identificazione non riguarda la sofferenza. Ma riguarda il contrario. Riguarda la liberazione. Riguarda l’elemento positivo, non l’elemento negativo. Questo non significa che l’elemento negativo non ci debba essere. Però se dovessi dire su che cos’è incentrata l’Haggadah, è incentrata sull’elemento successivo, sulla liberazione appunto, sulla “capacità” di liberazione, sul fatto di essere usciti comunque dall’Egitto. Sul fatto che si esca dall’Egitto e questo credo che sia un altro elemento importante.

Credo che una delle cose straordinarie della storia ebraica è come gli ebrei abbiano ricostruito, dopo. Non parlo dello Stato di Israele, che è un elemento straordinario ed è fuori discussione. Parlo della comunità di Milano, del fatto che gente tornata dalla Shoah abbia ricostruito una scuola, abbia ricostruito il tempio e abbia trovato il modo di ricostruire una comunità. Questo è incredibile. Credo che sia un elemento importante del come noi ebrei siamo riusciti a tornare alla vita dopo tutto quello che è stato.
La reazione di “dimenticanza” è una reazione naturale per difendere se stessi. Tentare di togliersi una sofferenza allucinante. Ma ricostruire una vita comunitaria è un’altra cosa, non è “dimenticare” la sofferenza, ma costruire la vita, nonostante la sofferenza. Ed è stato fatto dappertutto. Chiaramente meno in Polonia, meno in Ucraina. Lì ormai non c’era quasi più nessuno e dopo la Shoah si è passati a un’altra persecuzione. C’è stata un’espulsione di ebrei dalla Polonia dopo la Shoah, oltre ai pogrom. Gli ebrei erano sospettati di essere spie sioniste.
Nel mondo occidentale questo non si è vissuto.
Quindi, personalmente, penso che il viaggio in Polonia, dentro la Shoah, debba essere un momento in cui proviamo a capire. Credo che la conoscenza storica sia fondamentale. Credo che ci sia ancora un’ignoranza completa sull’argomento, un’ignoranza abissale.

Vorrei dire qualcosa anche sul Giorno della Memoria. La retorica, da sempre, fa parte delle celebrazioni ufficiali, ed è in effetti molto presente. Fatalmente direi. Diciamo la verità: ci sono le autorità che devono parlare di una cosa di cui non sanno nulla o quasi. Cosa vuoi che dicano? Diranno le stesse cose che hanno sentito dire da altri. Più o meno emozionati. Alcuni sono anche molto bravi. In generale parliamo di persone chiamate lì a fare una commemorazione di cui sanno poco o nulla, e la cosa più naturale è il rifugiarsi nel già detto. Inoltre, c’è anche una tendenza nostra a ripetere più o meno le stesse cose, facciamo un discorso pubblico dove cerchiamo di far passare un piccolo messaggio. Non puoi di certo fare una lezione, in pochi minuti.
Ma devo dire che ci sono anche cose importanti, nel Giorno della Memoria; alcuni programmi televisivi di storia che sono straordinari. Tuttavia, sono per un pubblico di nicchia. In genere sono fatti molto bene, davvero, di ottimo livello. Ma a quante persone arrivino questo non lo so; è più semplice, di largo consumo, lo sceneggiato, il film che veicola un’emozione. Ma bisognerebbe studiare un po’ di storia dell’antisemitismo, anche antica. Non fermarsi alla Shoah, che è un punto di arrivo della storia dell’antisemitismo, non di partenza. Ma anche studiare la storia dei primi trent’anni del Novecento. Nel 1933 arriva al potere Hitler, ma fino al ‘33 ne succedono di tutti i colori. A Vienna va al potere un sindaco con un programma esplicitamente antisemita. E poi succede dappertutto. L’antisemitismo è una caratteristica dei primi trent’anni del Novecento ed esplode dopo la prima guerra mondiale, non solo in Germania ma anche in Francia e in Inghilterra. Questa cosa va spiegata, perché noi diciamo spesso che lo studio della Shoah deve essere un messaggio per il futuro. C’è una cosa interessante che diceva Churchill: “il messaggio per il futuro è direttamente proporzionale a quanto riusciamo ad andare indietro nel tempo”. Però dobbiamo studiare il passato prossimo, non il passato remoto. Con il passato prossimo è più facile fare dei paragoni con la società moderna. Dire che oggi ci sono i nazisti è sbagliato, non stiamo rivivendo gli anni del nazismo. Non c’entra nulla con noi. Fare invece un paragone con l’Europa degli anni Venti, forse non è scorretto. Non stiamo parlando di nazisti. Stiamo parlando di qualcos’altro, di un antisemitismo dilagante, pervasivo: è un paragone molto più corretto.

La vittoria sul nazismo? È vivere una vita ebraica
La sconfitta sul nazismo sta nel fatto che siamo ancora qui, vivi. Questa è la sua sconfitta, diceva Vittorio Dan Segre. Diceva che dovevamo gestire una vittoria, non una sconfitta, perché alla fine il nazismo ha fallito. Gestire una vittoria certe volte è più difficile che gestire una sconfitta e credo che gli ebrei abbiano fatto tantissimo in questi decenni. La memoria è fondamentale per riuscire a vivere il futuro. È un’idea insita della tradizione ebraica. Quando si parla della mitzvah dell’offerta delle primizie, si racconta che prima dell’offerta bisognava fare una dichiarazione che è una specie di riassunto della storia ebraica. L’offerta delle primizie è riconoscere Dio come padrone della natura. Che cosa c’entra l’uscita dall’Egitto? La schiavitù? La risposta data da Rav Jonathan Sacks è che prima di sapere chi è Dio devo sapere chi sono io. Per sapere chi sono io, devo sapere da dove vengo, sennò non so chi sono davvero. L’obiettivo è sapere chi sono io, ma per saperlo devo capire il mio passato.