L’espulsione diventa “deportazione”, il terrorista solo un “radicalizzato”. Perché i media manipolano la traduzione delle parole?

Opinioni

di Angelo Pezzana

L’espulsione diventa “deportazione”, il terrorista solo un “radicalizzato”. Perché i media manipolano la traduzione delle parole?

Quando l’ideologia contamina per fini politici la traduzione italiana di alcune parole inglesi quasi sempre non trova ostacoli. Il verbo to deport, ad esempio, può essere tradotto con “deportare”, ma anche con “espellere”. Da quando i nostri media specializzati nel diffamare Israele hanno cominciato ad adottare la versione “deportare” – quando il governo israeliano decideva di espellere clandestini o stranieri colpevoli di qualche reato – gli ignari lettori venivano (dis)informati su quanto avveniva in realtà e una decisione – comune a tutti gli altri Stati – diventava strumentalmente odiosa, specialmente quando donne e bambini vi erano coinvolti.

Come, Israele deporta intere famiglie? Se lo scrivono senza smentite i media deve essere vero: ecco un altro esempio che spiega la crescita dell’odio anti Israele. La manipolazione della traduzione diventa universale da quando la stessa tecnica viene applicata alla parola radical, un regolare aggettivo che può significare anche nella nostra lingua un mutamento, un numero, una terapia, persino il nome di un partito come quello fondato da Marco Pannella, che invece nelle cronache dei media ha sostituito: terrorista! “L’attentatore di Londra radicalizzato in carcere”, titolavano i giornali per descrivere l’attentatore di Boris Johnson, per arrivare alla definizione di “potenziale terrorista” occorreva leggere il pezzo, che lo qualificava persino “potenziale”.

Non sarà un caso se un numero significativo di “radicalizzati”, dopo un paio di anni di buona condotta in prigione, vengono scarcerati. Se erano stati condannati in quanto potenziali terroristi, la parola che ha affrettato la loro liberazione è stata “radicalizzati”, in fondo molto meno grave di terrorista. Poco importa se le tecniche sono le stesse, l’urlo di Allah Uakbar mentre si accoltella o si lancia una bomba, può essere un atto che si è appreso da qualche “estremista” in carcere, oppure attraverso internet, ma anche con la frequentazione di moschee “radicalizzate”, la parola che ha cancellato la verità, quelle moschee erano effettivi centri dove si impara a diventare terroristi. Terroristi, non radicalizzati, una parola che impedisce di capire il mondo in cui viviamo. Eppure l’hanno adottata quasi tutti i nostri “esperti”, qualcuno di sicuro in buona fede, il che non diminuisce l’irresponsabilità di chi la usa. C’è una guerra da combattere contro il terrorismo, non ci sono avversari con opinioni diverse dalle nostre, pronti a civili confronti, ci sono dei nemici che vogliono distruggere il nostro modo di vivere. Smettiamola di chiamarli “radicalizzati”?