Identità e mutamento, la politica come “arte del possibile”, per ricomporre i conflitti che attraversano le nostre società

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] La politica non è il campo delle identità («io sono») ma delle possibilità («io potrei essere»). Come tale, non ha a che fare con ciò che già si è ma con quanto si potrebbe divenire; a patto, tuttavia, che si tenga in considerazione un elementare – quanto troppo spesso dimenticato – principio: ossia, che si esiste e si vive non da soli, in uno spazio vuoto, ma insieme ad “altri”, molti altri. Spesso, profondamente diversi da noi. Ovvero, a tratti anche simili a noi stessi ma, in virtù dell’irripetibilità dei caratteri di ogni individuo, tutti comunque caratterizzati da insopprimibili differenze di fondo: quindi, nel carattere, di esperienza, di storia (personale, famigliare, di gruppo) per poi proseguire con la lingua, la cultura, la religione e molto altro.

Le differenze sono in sé un valore, a patto che tuttavia trovino un costante punto di sintesi. La cittadinanza, per come è regolata dai moderni regimi costituzionalistici, è esattamente il terreno di questo necessario incontro tra diversi, uniti dall’avere i medesimi diritti. Questi ultimi, peraltro, non sono solo dei principi astratti ma costituiscono quella vera e propria dotazione che ogni essere umano dovrebbe concretamente ricevere dalla nascita per potere vivere la propria esistenza in opportunità e dignità.

Il sogno utopico di un’assoluta omogeneità delle persone, di un loro livellamento verso una qualche forma concreta di omologazione, storicamente non ha prodotto occasioni di maggiore eguaglianza, ossia di equità sociale crescente; piuttosto, ha decretato l’uniformazione verso il basso di intere collettività, fino alla soppressione di qualsiasi residuo barlume di libertà e, con essa, di giustizia effettiva.

Non possono sussistere libertà e giustizia, infatti, se si parte dal presupposto che le identità, personali e di gruppo, debbano essere schiacciate dentro un unico, asfissiante, totalitario modello di riferimento. Tanto più quando poi la realizzazione di quest’ultimo è affidata ad organismi coercitivi, a partire dallo Stato. Ma le stesse differenziazioni, affinché non si traducano in asimmetrie sociali insostenibili, basate quindi sulla loro trasformazione in fattori di cristallizzazione di insopportabili diseguaglianze di risorse, richiedono comunque continui interventi delle autorità pubbliche. Il rischio, altrimenti, è di logorare prima e di distruggere poi quel capitale fondamentale che è la coesione sociale, ovvero il delicato equilibrio tra il bisogno di tutelare le differenze e il garantire il diritto all’integrazione di tutti. Senza una tale azione, le società rischiano non solo di usurarsi ma anche di rompersi, di frantumarsi, quanto meno di dividersi in una serie di arcipelaghi, composti da piccole tribù, che non si parlano più tra di loro. Quando le cose assumono una tale disposizione, è allora assai più facile che a ogni crisi si risponda in maniera violenta, posto che le tribù medesime, separate le une dalle altre, faticano ad andare da sole oltre i confini della loro stessa identità che, ad un tale punto delle cose, non è più un fattore propulsivo della comunità ma un elemento costrittivo se non regressivo. In altre parole, ognuno si chiude dentro il perimetro del suo gruppo, senza riuscire più a vedere altro orizzonte che non sia il muro di cinta che ha costruito intorno a sé.

La politica è invece l’insieme di relazioni che costruiscono il campo delle mediazione tra interessi, ruoli sociali ma anche identità, passioni e idee tra di loro differenti. Come tale, è l’unico antidoto rispetto alla tentazione di rinchiudersi in una sorta di recinto immaginario, che dovrebbe preservare gli individui dall’influenza dei cambiamenti.
La politica, infatti, rimanda all’arte del possibile, laddove quest’ultima esprime lo spazio dove i conflitti che attraversano e accompagnano le nostre società trovano una ricomposizione negoziata. Senza un tale sforzo, che va peraltro rigenerato di volta in volta, tutto il resto rischia di rivelarsi illusorio: potrà magari affermarsi temporaneamente in quanto espressione delle asimmetrie nei rapporti di forza ma non costruirà nulla di duraturo.
Affinché il bisogno di un’illusione – quella di essere autosufficienti – non abbia a ripetersi, al pari di una sorta di inganno di se stessi, occorre quindi capire che identità non vuole dire mai recinto invalicabile ma cognizione della propria persona, e del proprio gruppo, sempre e comunque in rapporto a ciò che circonda l’una come l’altro. La storia si è incaricata ripetutamente di dimostrare quanto le illusioni siano destinate, prima o poi, a svanire. E con esse, purtroppo, anche coloro che se ne sono fatti latori e fautori.