Una storia d’amore e di vita, di lotta e d’intelletto: nel Pardes di Rabbi Akivà, gigante del Talmud

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture]

Delle molte centinaia di saggi del Talmud (solo il trattato Berakhot ne nomina quasi quattrocento), alcuni sono più autorevoli e noti degli altri: Hillel e Shammai, Jochanan ben Zokai e Jehuda haNassì, Rav e Ravà, per fare solo qualche nome. Ma il grande protagonista del Talmud, il maestro in assoluto più citato e ammirato è Rabbi Akiva. In quella grande arena di discussione intellettuale che è il Talmud ciò che conta sono soprattutto la conoscenza, la lucidità intellettuale e la capacità di ragionamento: queste sono le ragioni profonde della predominanza di Rabbi Akiva che ne fa con Rashi, il Maimonide e pochi altri il maestro del pensiero ebraico, da studiare innanzitutto per il suo contributo creativo alla halachà, la norma di vita che regola l’esistenza ebraica. Ma oltre alle sue decisioni e ai suoi ragionamenti, la tradizione riporta anche alcuni episodi della sua vita – sia perché anche questi sono fuori dall’ordinario, sia perché la sua grandezza dà loro carattere esemplare.

Si racconta per esempio che a differenza della gran parte dei maestri Rabbi Akivà non iniziò a studiare da piccolo, ma solo a quarant’anni, colpito d’improvviso dalla necessità di conoscere le leggi della Torà. Si tramanda anche la sua grande storia d’amore con la moglie, che per lui, povero, abbandonò una famiglia prospera e fu diseredata, ma lo mantenne agli studi sfidando anch’essa la miseria fino a quando non fu riconosciuto come un grande rabbino ed ebbe numerosi allievi. Si dice che migliaia di questi allievi morissero misteriosamente tutti assieme, ed è forse un modo per far capire che perirono nella resistenza all’occupazione romana, dato che Akiva sostenne attivamente la rivolta di Bar Kochbah. Allo stesso contesto va attribuito il ricordo della sua morte, causato da un’esecuzione romana particolarmente atroce, ma coronato da un esemplare pubblico atto di fede. Nel Talmud vi è anche una rara testimonianza di una tensione mistica, con la storia misteriosa o metaforica dell’ascesa al “giardino del Pardes” di quattro grandi saggi, da cui solo Akivà poté uscire senza danno.

Mentre la vita di Rabbi Akivà appartiene alla seconda generazione dei saggi della Mishnà, essendo egli nato venti o trent’anni prima della distruzione del Tempio, cioè verso l’anno 50 e morto probabilmente a Cesarea (ma la sua tomba è a Tiberiade) nel 135, la maggior parte di quel che sappiamo di lui è riportato nel Talmud, che si chiude mezzo millennio dopo. Non abbiamo documenti diretti o coevi della sua vita. Questo rende difficile distinguere i fatti dalla cornice agiografica e leggendaria che inevitabilmente il tempo accumula intorno a una figura così importante.
Per questo è un’impresa problematica scriverne una biografia (sua, come di tanti altri personaggi della tradizione ebraica antica) che risponda ai criteri storici del nostro tempo. Ci ha provato Barry Holz, in un libro appena edito da Bollati Boringhieri (Rabbi Akivà, l’uomo saggio del Talmud). Non ci sono fatti nuovi, naturalmente, ma c’è una rassegna approfondita delle fonti, delle differenze e delle assonanze fra le loro testimonianze e c’è uno sforzo importante di capire sia l’uomo Akivà, immerso nel suo tempo, sia la grande testimonianza esemplare che la sua vita è venuta assumendo nella storia dell’ebraismo. È una lettura affascinante, un libro di pensiero che è anche la storia di una ricerca storica e il riconoscimento di una dimensione identitaria centrale. Ed è anche un invito ad andare a ritrovare nel testo del Talmud le tracce del suo insegnamento.