Un balsamo riparatore, per consolare chi resta

Libri

di Michael Soncin

Una riflessione sul fine vita di Delphine Horvilleur: Piccolo trattato di consolazione – Vivere con i nostri morti

La spada brandita tra le mani, il piumaggio alato, i predestinati che giacciono lungo il suo cammino. È Azrael, l’Angelo della Morte, una raffigurazione simbolica presente nel nostro immaginario collettivo.

Nella tradizione ebraica, per evitare di essere braccati al suo passaggio, esistono degli stratagemmi, dei tentativi di ingannarlo. Una delle usanze più conosciute è quella di cambiare il nome a un malato grave, per depistare la Morte, confondere il suo cammino. Ma andando più addentro e cambiando prospettiva, come definirla? Per molti di noi è difficilissimo, quasi impossibile, darle un significato.

Che cos’è la morte? Chi è costei? Non abbiate paura. Fidatevi. Lasciatevi prendere per mano da Delphine Horvilleur, che con il suo Piccolo trattato di consolazione conduce il lettore lungo un sentiero stellato, fatto di storie, dove esegesi e narrazione si intrecciano. Horvilleur, ministra di culto Reform, studiosa, mente brillante del mondo intellettuale ebraico d’Oltralpe, ci consegna qui una riflessione sulla fine della vita scaturita inizialmente dai crudeli e improvvisi decessi da Covid e dalla difficoltà di assistere moralmente e spiritualmente i parenti spesso privati della consolazione di presenziare le esequie al cimitero.

Un libro ispirato e dolente: percorrendone le pagine entrerete dentro cespugli spinosi, varcando una soglia che spesso non vorreste; pagine che toccano l’anima, un miele consolatorio che sana le ferite. Una di queste storie inizia a Parigi. Siamo nel cimitero di Montparnasse, è il 15 gennaio del 2015 e stiamo per salutare Elsa Cayat, la psicanalista francese assassinata durante l’attentato a Charlie Hebdo. Ebrea sefardita, persona dallo spirito anticonformista, erudita, oltre a gran chiacchierona. Ad accompagnarla ci sono i suoi amici, la redazione, i suoi lettori, i suoi pazienti.

Qualche anno dopo tocca a Marc, che a 59 anni lascia un figlio, i genitori ed una compagna. Caso della sorte, era un paziente di Elsa. Proseguendo ancora c’è Sarah, scomparsa in tarda età, originaria da un ghetto in Ungheria, dall’esistenza intensa e durissima, una fra tutte, quella di aver fatto i conti con l’abisso di Auschwitz. Altri ancora. E poi come in tutti i funerali c’è il rabbino, che ha la funzione di ufficiare il rito, di raccontare ai presenti i testi della tradizione, in una maniera tale che chi li sta ascoltando per la prima volta, possa decriptarli per sé stesso, trasmettendoli a sua volta. “La perdita di un genitore rende orfani, la perdita di un coniuge vedovi. Ma che cosa si diventa, quando manca un figlio?”. Tutti hanno perso qualcuno.

I racconti di queste vite si uniscono ai culti dell’ebraismo, portandoci a conoscere aspetti più o meno noti: perché il cimitero è chiamato Beit ha-chayim, “casa dei vivi”? perché sulle tombe invece dei fiori si lasciano piccole pietre? Per nascere bisogna morire, come nel caso dello sviluppo embrionale, dove le mani, ancora palmate, prendono forma perché le cellule che le uniscono muoiono grazie a un fenomeno chiamato apoptosi (in greco “cadere dall’alto”), lo stesso che fa cadere le foglie d’autunno donando vita nuova alle piante. Vita e morte sono legate, una non esiste senza l’altra. La vita e la morte pongo davanti a te, la benedizione e la maledizione. Tu scegli la vita (Deut. 30,19).

Delphine Horvilleur, Piccolo trattato di consolazione – Vivere con i nostri morti, trad. Elena Loewenthal, Einaudi, pp. 157, euro 16,50.