La lingua senza frontiere raccontata da Anna Linda Callow. Fascino e avventure dello yiddish

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture] Nel libro di Neemia (8: 1-8) si racconta che qualche anno dopo il ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese, verso la metà del V secolo prima della nostra era, il popolo fu convocato davanti alla “porta delle Acque” di Gerusalemme per una lettura pubblica della Torà. Il sacerdote Esdra leggeva e alcuni saggi e i leviti “facevano capire” il testo al popolo, il che secondo l’opinione di molti significa che lo traducevano nel dialetto dell’aramaico che gli esuli tornati da Babilonia usavano ormai come loro lingua. È probabilmente la prima descrizione di uno scarto fra l’ebraico, “lingua santa” dei testi sacri, delle preghiere e dei dotti, e i vari idiomi che gli ebrei adottarono nei loro esili.

Ce ne furono molti, dal “ladino” dei sefarditi (da non confondere con la lingua di certe valli delle Alpi nei Grigioni e in Alto Adige) alle diverse varianti del “giudeo-arabo” in cui scrisse anche Maimonide, ai vari dialetti prevalenti nelle comunità italiane fino a qualche decennio fa (giudeo romanesco, giudeo piemontese ecc.). Tutte queste lingue erano scritte con caratteri ebraici, avevano una base lessicale e spesso anche una sintassi mista fra ebraico e parole dei paesi dove erano parlate ed erano usate non solo nella comunicazione orale ma anche in produzioni letterarie varie.

All’esempio più famoso di questa famiglia di lingue, lo Yiddish (che significa semplicemente “ebraico”, cioè il modo di parlare degli ebrei) ha dedicato un libro conciso e assai piacevole e affascinante (La lingua senza frontiere. Fascino e avventure dello yiddish, Garzanti) l’ebraista Anna Linda Callow, ben nota autrice anche di un altro libro altrettanto interessante sull’ebraico (La lingua che visse due volte).

Callow smonta parecchi pregiudizi sullo yiddish: non è una lingua che nasce dalle parti della Polonia, ma molto più ad ovest, con un ramo significativo addirittura in Italia; non è una lingua che si sviluppa letterariamente nel Sette e nell’Ottocento, vi sono produzioni interessanti all’inizio dell’età moderna; non è un dialetto povero e grossolano (anche se nel libro viene spesso nominato, con affettuosa ironia come zhargon, un’espressione che come lo jargon francese significa dialetto). Non è una lingua semplice e diretta usata solo negli shtetl, i villaggi ebraici dell’Europa orientale oggi spesso esageratamente idealizzati: anche nei discorsi del più famoso personaggio della letteratura yiddish, Tewje il lattaio del Violionista sul tetto, Callow mostra che si rincorrono citazioni dalla Torà e dal Talmud tutte accuratamente usate a sproposito.

Non è un linguaggio morto, perché ancora vi sono scrittori e appassionati. Ma è stato oggetto di un ostracismo nel movimento sionista che scelse l’ebraico per distanziarsi dalla vita religiosa ebraica dell’Europa orientale e anche dai socialisti del Bund che entrambi si esprimevano in yiddish. Fu un distacco faticoso e certamente difficile per il gruppo dirigente che guidò la costituzione dello Stato di Israele, tutto proveniente da famiglie che lo parlavano; ma senza dubbio fu una scelta opportuna, che consentì l’integrazione di chi proveniva da altre zone e soprattutto dai paesi musulmani.

Dello yiddish oggi sopravvive il mito, la nostalgia, il ricordo di un mondo che fu indebolito durante l’Ottocento dallo sviluppo dell’economia moderna, poi fu perseguitato in ugual maniera dagli zar e dai bolscevichi e infine fu distrutto con disumano accanimento dai nazisti. Callow ci racconta la sua storia, ma anche uno scorcio di quella vita palpitante e di quella grande cultura dell’ebraismo orientale che si definisce appunto col nome della lingua yiddish.