Sogniamo tutti un nuovo rinascimento per lo yiddish

di Michael Soncin

Intervista ad Anna Linda Callow

Siamo a Milano, tra le imponenti mura della Stazione Centrale. È notte fonda e una giovane donna s’incammina per prendere il treno. Non uno qualsiasi, ma un treno speciale. È il treno dei desideri, che la porterà a Parigi, per tuffarsi in un mondo di parole: quelle dello yiddish. La storia di Anna Linda Callow inizia così, quando su spassionato consiglio della sua amica Claudia decide di acquistare un libro, College Yiddish del linguista Uriel Weinreich. Amore a prima vista.

Da allora, ne è passato di tempo, da quel primo viaggio nella capitale francese, dove i seminari di letteratura yiddish fra le stanze della storica Bibliothèque Medem non hanno fatto che moltiplicarsi. Una strada in continua salita. Per lei lo yiddish è la lingua dei sogni. Un sogno ad occhi aperti che bene racconta nel suo saggio La lingua senza frontiere (Garzanti), in cui la divulgazione dell’amato idioma e il racconto autobiografico camminano in parallelo.

Anna Linda Callow, docente di Lingua e letteratura ebraica presso l’Università degli Studi di Milano, è traduttrice di numerosi testi dall’ebraico, dall’aramaico e dallo yiddish (sue le versioni italiane di La moglie del Rabbino, di Chaim Grade, Giuntina, e La famiglia Karnowski, di Israel Joshua Singer, Adelphi, romanzo responsabile di un vero e rinnovato entusiasmo per la letteratura yiddish tra il pubblico italiano).

Ci siamo mai chiesti il significato della parola yiddish? «Significa semplicemente ‘giudaico’ – risponde Anna Linda – Prende la radice del nome ebraico Yehuda, da cui deriva il sostantivo giudeo. Riferendoci all’idioma, invece, lo yiddish fa parte di quelle che gli studiosi chiamano Jewish Languages, ovvero le ‘lingue giudaiche’ che si sono formate nella diaspora a partire dalle parlate delle popolazioni circostanti, che per definirsi tali, devono presentare due caratteristiche precise: avere termini presi in prestito dall’ebraico ed essere scritte in caratteri ebraici. Pensiamo al giudeo-spagnolo, detto anche ladino, da non confondere con la lingua diffusa nell’area delle Dolomiti, al giudeo arabo, al giudeo persiano o ancora al giudeo-italiano, di cui Primo Levi ne Il Sistema Periodico offre un assaggio. Queste sono tutte appartenenti alla grande famiglia delle Jewish Languages». Oltre a essere scritta in caratteri ebraici, da destra verso sinistra, la lingua degli ebrei ashkenaziti, come spiega Callow, si distingue per la presenza di un trittico linguistico: è infatti formata da una componente germanica, una ebraica e una slava. Famiglie linguistiche di origini molto differenti.

«La prima testimonianza nota di una frase che possiamo definire yiddish risale al 1272 e la ritroviamo scritta all’interno del Mahazor di Worms, un libro di preghiere. Gut tak im betage se war dis machasor in bess hakkenesses trage, ‘un buon giorno risplenda a colui che trasporterà questo libro di preghiera in sinagoga’. Tale augurio si può considerare scritto in yiddish perché risponde ai due criteri sopracitati. Notiamo infatti due prestiti dall’ebraico, machasor, ‘libro di preghiere’ e bess hakkenesses, ‘sinagoga’». Ai suoi albori, gli ebrei che abitavano nei pressi del Reno non definivano ancora il loro idioma con il termine yiddish, ma bensì taytsh, che significa ‘volgare’, la lingua del popolo”. L’autrice, nell’offrire un accenno sull’evoluzione storico-linguistica, racconta anche del nome Ashkenaz. «Nel medioevo venne utilizzato in riferimento alle zone della Renania, e in seguito a tutta la Germania. Gli ebrei del posto venivano detti ashkenazim, ‘di Ashkenaz’. Se pensiamo poi al più grande commentatore della Torah e del Talmud, Rashi di Troyes (1040-1105) nei suoi scritti usava la parola Ashkenaz per indicare la Germania, e loshn Ashkenaz, la ‘lingua di Ashkenaz’, in riferimento alla parlata dell’epoca».

TRADURRE CAMILLERI NELLA LOSHN ASHKENAZ
Sapendo che si tratta di un pastiche di tre componenti, tradurlo presenta ovviamente delle peculiarità non trascurabili. «L’italiano non ha una triplice componente, perciò nella traduzione tutto si appiattisce. Pensiamo a Camilleri. Lui gioca sulle parole del siciliano, che inserisce con grande arte e misura nei suoi gialli. La sua lingua è di fatto bicomponente. Se lo traduci in yiddish o in inglese per il grande pubblico, questa sua singolare caratteristica andrà persa».

L’OTTAVA FIGLIA DI TEVJE
Sono tanti gli scrittori noti della letteratura yiddish, impossibile parlarne in questo breve spazio, ma ce n’è uno che vogliamo menzionare e che Anna Linda Callow predilige su tutti. «Il grande amore della mia vita è Sholem Aleichem. È quello che rende meno in traduzione per il gioco acrobatico delle tre componenti. Lo adoro per il suo modo di amare lo yiddish, di pizzicare un po’ i fondamenti della cultura ebraica che mette in relazione con lo yiddish e con la parte slava. Mi ha dato tanto sul piano personale. Io poi tendo a vivere le mie attività di studio sentendomi completamente trascinata». Il romanzo Tewje il lattaio è la sua opera più famosa: «Tewje aveva sette figlie, e visto che non è mai realmente esistito, se non come personaggio letterario, posso considerarmi liberamente la sua ottava figlia!».

Lo abbiamo visto nelle famose serie televisive di Shtisel e Unorthodox: oggi lo yiddish è parlato prevalentemente dalle correnti di ebrei ultraortodossi, che non sono interessati alla produzione di una letteratura secolare. Tutte quelle persone originarie prevalentemente dagli shtetl, da cui sono nate le grandi firme della letteratura yiddish, sono state cancellate prima dai pogrom, poi dalla Shoah. «Quello che manca oggi è la produzione di una nuova letteratura secolare». Una speranza che Anna Linda Callow coltiva, come tutti gli amanti della loshn ashkenaz. Mai dire mai! Forse l’Eliezer Ben Yehuda dello yiddish è già tra noi. Come diceva Isaac Bashevis Singer, l’unico Premio Nobel per la letteratura di lingua yiddish: «Lo yiddish deve ancora dire l’ultima parola. Contiene tesori che attendono di essere rivelati al mondo». Il saggio di Callow racchiude anche un desiderio che l’autrice ci confida: «Non penso che un libro abbia questo potere. Ma se vogliamo parlare di speranze segrete, il mio desiderio è che dopo averlo letto, accenda in molte persone in Italia, la voglia di studiarlo».

Anna Linda Callow,
La lingua senza frontiere. Fascino e avventure dello yiddish, Garzanti,
pp. 288, 18,00 euro.

Foto in alto: Hassidim a New York, disegno di Hank Blaustein.