Dalla Lituania al Negev: quando il destino dell’esilio diventa vibrante poesia

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di Fiona Diwan

Il suo volto campeggia sulle nuove banconote da 100 shekel. È stata una delle grandi madri della letteratura israeliana, una delle figure più interessanti e complesse dell’Yishuv. In questa raccolta scritta tra il 1948 e il 1955 si dispiega il dolore dell’esule misto a un amore profondo per la nuova patria

Nessun poeta in lingua ebraica ha saputo incarnare il destino dell’esilio, la duplicità delle patrie, il sentimento dell’immigrazione come Lea Goldberg. Nessuna voce poetica è stata in grado di esprimere a tal punto l’amore per l’Europa ebraica perduta, dopo il 1945, e la nostalgia per una cultura europea intellettualmente opulenta, la cui ricchezza letteraria e profondità filosofica parvero così vane, impotenti, davanti all’orrore della Shoah. La sua voce colpisce al cuore chi sa che cosa voglia dire vivere scissi, amputati della propria infanzia in terre lontane, privati dei propri paesaggi interiori e ancestrali. Esuli fuggitivi, intenti a coltivare la piantina incerta di un nuovo Io. «… Gli uccelli migratori sono forse i soli a sapere / – fra cieli e terra sospesi -/ questo dolore che è avere due patrie», scrive in Pino, una delle sue liriche più celebri. A un altro albero, Eucalipto, è dedicata la poesia che incarna l’identità migrante del destino ebraico-sionista, eucalipto che migrato dall’Australia mette dimora nelle paludi d’Israele per bonificarle e renderle fertili e salubri, albero venuto da un “altrove” e divenuto locale, metafora degli stessi pionieri. Reminiscenze della poesia sefardita medievale, espressioni bibliche e salmiste (l’uso ripetuto dell’Ashrey, Beato chi…, o del Verranno i giorni…, yamim ba’im…), il codice della poesia cortese e provenzale francese ma anche i sonetti di Petrarca così amato, fino agli echi di Orazio e della poesia latina…

Il baule letterario da cui attinge Lea Goldberg è immenso, la sua capacità di ibridare le forme per piegarle alla propria vena poetica, assoluta. Sradicamento e nostalgia per la Lituania della giovinezza, ma anche amore sconfinato per la lingua ebraica e per quel sionismo letterario di cui Lea Goldberg è stata una delle principali interpreti.

È una festa poter leggere oggi – grazie a Giuntina, alla traduzione e mirabile curatela di Paola Messori, alla postfazione di Giddon Ticotsky – questa raccolta che riunisce poesie scritte dal 1948 al 1955, alcune delle quali tra i vertici della sua produzione. Si sa, la Lituania ha prodotto un altissimo lignaggio intellettuale, un’aristocrazia del pensiero che affonda la sua tradizione nel rigore di studio d’impronta razionalista, dal Gaon di Vilna ai Mitnagghdim al movimento del Mussar, da Emmanuel Levinas a Emma Goldman a Romain Gary, tutti figli talentuosi di quella piccola terra, originari di Kovno o Vilnius.

Anche se nata a Konigsberg, in Prussia, Lea Goldberg non è da meno: vive a Kovno, inizia a scrivere in russo ma poi sceglie l’ebraico inventando letteralmente una nuova lingua e la sua forma-sonetto. Traduce Petrarca, Dante, Immanuel Romano direttamente dall’italiano all’ebraico. Maneggia con eguale perizia il tedesco (traduce Rilke), il latino e lo yiddish, l’inglese (traduce i sonetti di Shakespeare in ebraico), il francese (traduce Molière e Balzac), il russo (traduce Čechov, Dostoevskij, Tolstoj – la sua traduzione in ebraico di Guerra e Pace è ancora oggi considerata la migliore). Traduce nel 1951 anche L’Agnese va a morire, di Renata Viganò, facendo conoscere la Resistenza italiana ai giovani lettori israeliani.

Insegnerà Letterature comparate alla Hebrew University fino alla sua morte, nel 1970, a 59 anni, alle sue lezioni corrono ad assistere non solo studenti ma letterati, scrittori, artisti. Appena arrivata nell’Yishuv della Palestina mandataria, nel 1935, inizia a scrivere per Davar, il quotidiano più diffuso, e Mishmar, l’organo dell’Hashomer Hatzair.

Nei caffè di Gerusalemme discute con Martin Buber, S. Y. Agnon e Gershom Sholem, si confronta con Natan Alterman e Avraham Shlonsky che di lei scriverà che “detestava ogni ristrettezza, fosse geografica, nazionalistica o formale… conosceva tutto dell’Europa e per di più era poliglotta… noi tutti amavamo il fatto che si lasciasse spiritualmente sedurre dalla variegata umanità, dalle epoche, dalle forme, dai contenuti…”.

L’angoscia per la guerra in Europa e l’amore per il poeta Avraham Ben Yitzchak genera alcune liriche tra le più belle. Scrive nel suo Diario: “… in tempi di guerra non solo è concesso al poeta di scrivere poesie d’amore, ma ha il dovere di farlo, perché in tempi di guerra l’amore ha un valore più grande dell’omicidio… È suo dovere ricordare che esistono al mondo valori semplici ed eterni capaci di rendere la vita più preziosa, la morte più perfetta – la morte, dico, non l’omicidio…”. È il “coraggio dell’ordinario” quello che interessa a Lea: “In un aspro mondo irato / sotto cieli freddi / io resto e nel cuore ho la gioia”. O ancora: “Beati coloro il cui sorriso sbocciò nella bufera / come luce di stella sulla furia delle onde /beati coloro che si incontrano in giorni tristi / e la loro letizia risplende nell’ombra…”

Sonetti aristocratici ma anche versi liberi e più ariosi, oppure poesie di stampo popolare ispirate al testo biblico. Ricordi di torbida nostalgia si alternano alla voce di solitudine con cui canta la distruzione del suo mondo: “noi, la generazione prima della guerra… abbiamo cari valori di cui probabilmente domani nessuno capirà il carattere, la bellezza, la morale…”, appunta nel suo Diario. Qui non ci sono farfalle, ein parparim po’, scriverà a proposito dei bambini di Terezin, non esistono più farfalle in Europa… Al risveglio doloroso in un “mondo di pietra”, indifferente ai sognatori e ai loro sogni, Lea Goldberg saprà opporre il suo schivo sorriso, il lampo dell’alba, la luce che fa capolino da sotto le nuvole: perché “beato chi venne nel giorno dell’amarezza/ e lume per l’amico fu il suo lume…”. Versi che sono un balsamo.

Lea Goldberg, Lampo all’alba – Poesie, a cura di Paola Messori, Giuntina, pp. 253, 17,00 euro.

 

 

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