Liliana Picciotto: “Questa giornata è anche il rinnovo del patto fondativo dell’Europa”

Eventi

Università degli Studi di Padova, Sala dei Giganti, Palazzo Liviano

Lectio Magistralis di Liliana Picciotto per il Giorno della Memoria, 26 gennaio 2024

Questa giornata dovrebbe guidarci a empatia per il dolore inferto 80 anni fa al popolo ebraico e, per chi se la sente, a prendere delle responsabilità e dire a se stesso: farò in modo che non succeda più che una religione sia dannata, che un gruppo sia maltrattato o una persona sia uccisa o bruciata o torturata per quello in cui crede e per quello che è.

Ma questa giornata è anche il rinnovo del patto fondativo dell’Europa dopo le devastazioni materiali e morali della seconda guerra mondiale. In questo senso, non ho mai vissuto questa giornata come un regalo agli Ebrei, tutt’altro, si tratta non tanto di “commemorazione” ma di “rimemorazione” tesa ad edificare una pubblica consapevolezza. È questa l’intuizione che ebbe il Re di Svezia quando, nel 2000, chiamò a raduno capi di Stato, ministri, intellettuali di tutto il mondo per lanciare e condividere l’idea di una giornata dedicata al genocidio degli Ebrei d’Europa. Io c’ero a Stoccolma e mi ricordo che pensai subito che il senso che si voleva dare alla giornata non era nazionale, ma universale, e concordai pienamente con questo spirito.

In questi ultimi mesi, quel senso e quel significato mi è apparso quanto mai vacillante al punto che, come molti, mi sto chiedendo se il nostro lavoro di educatori e di divulgatori non sia miseramente fallito. Quest’anno, presidenti e capi delle comunità ebraiche di tutto il mondo si sono chiesti se fosse giusto non partecipare alla commemorazione pubblica di ciò che successe 80 anni fa, per marcare il lutto collettivo che ci ha travolto 4 mesi fa, con la strage del 7 ottobre 2023 nel Sud di Israele. Io stessa provo una grande sensazione di disagio e ho rifiutato molti inviti.
Dato che avevo già accettato di partecipare all’Università di Padova con una “lectio magistralis” sollecitata dal gentile professor Filippo Focardi, che ringrazio, come ringrazio tutte le autorità accademiche e civili che mi hanno invitata, mi presento a voi, carica di angoscia, e per nulla tranquilla che il mio discorso arrivi ai vostri cuori.

Non ci è concesso fare paragoni con la Shoah che fu, soprattutto, un meccanismo statale, studiato e condotto con scientificità, determinazione e organizzazione, ma l’efferatezza di quell’uomo, che aveva anche un piccola cinepresa legata alla fronte perché doveva mostrare ai suoi mandanti la sua impresa, è sempre la stessa, è quella di allora, prodotta da uno dei peggiori motori emozionali che muovono talvolta l’uomo: il fanatismo.

E che dire degli ebrei del mondo, come io stessa sono, che vengono infangati da menzogne mediatiche, umiliati se portano segni di ebraismo, zittiti nei talk shows televisivi, come se fossero cancellati in loro quei principi universalistici di uguaglianza e rispetto della dignità delle persone che, invece, sono alla base del pensiero e dell’identità ebraica.

 

Sabato 21 ottobre, passavo per caso in via Manzoni a Milano e all’improvviso, mi trovo in mezzo ad una folla urlante in arabo: “aprite le porte, ammazziamo gli ebrei!”. Vi assicuro che, con il cuore in tumulto, allontanandomi velocemente, a testa bassa, quel giorno, mi è crollato il mondo addosso.

Ma poi ho avuto un moto di ribellione contro me stessa. Non possiamo permetterci che la realtà venga così semplificata, non dobbiamo rinunciare al nostro dovere di esercitare pensiero, non abbiamo bisogno di innalzare slogan sul conflitto in Medio Oriente, dobbiamo tenere conto di tutta la realtà: chi si ricorda che Israele è una democrazia parlamentare e che in quel Parlamento siedono deputati arabi; chi sa che all’interno della Corte Suprema, tra i 12 giudici ce n’è uno arabo; chi sa che molti bambini palestinesi sono portati a guarire negli ospedali israeliani di confine, succedeva prima del 7 ottobre, ma succede anche adesso, con il conflitto in corso.

Dobbiamo, tutti, ma soprattutto noi ebrei, israeliani, palestinesi, popoli arabi riconvertire l’energia negativa che ci sta sommergendo e che potrebbe provocare altre inenarrabili tragedie, in uno sforzo per immaginare un futuro dove tutti i popoli della regione siano soddisfatti e sicuri nei propri confini. Non è un miraggio, se gli ebrei, sono riusciti a realizzare nel 1948 il loro sogno di avere una terra e un riparo politico, perché non potrebbero realizzarlo anche i palestinesi? L’importanza è che il progetto sia uno Stato di Palestina che viva accanto allo Stato di Israele e non al posto dello Stato di Israele. Noi tutti, spettatori che ci crediamo impotenti, dobbiamo lavorare perchè il nostro non sia un grido di guerra, ma un grido di pace.

Ora, con il cuore gonfio per le vittime di tutte le parti in causa, vi parlo, come previsto, degli avvenimenti di 80 anni fa e scusate questo mio sfogo iniziale.

Durante le ricerche per il mio libro Salvarsi, uscito nel 2017, ho cercato di spiegare i meccanismi usati da molti cittadini Ebrei tra il 1943 e il 1945 per salvare se stessi e le proprie famiglie, malgrado l’oppressione assoluta cui erano sottoposti ormai da parecchi anni (in Italia già dal 1938). Sono riuscita a registrare la testimonianza diretta di ben 700 persone, allora ultra ottantenni e, ormai, purtroppo, scomparsi.
Ne è uscito un quadro variegato, in cui i modi di salvarsi sono stati tanti. Vi parlo qui di quelli più estremi, che mi hanno colpita di più.
Qualcuno è sfuggito alla retata del 16 ottobre 1943 a Roma (dove i tedeschi si recarono di casa in casa, alle sei di mattina, sfondando le porte che non si aprivano), buttandosi dalla finestra del primo piano del cortile; qualcuno si è nascosto sotto il letto mentre i militi entravano e arrestavano il resto della famiglia; qualcuno si è nascosto dentro un armadio con il fiato sospeso mentre la sua casa veniva perquisita(questo è successo a Trieste); qualcuno si è buttato nel buio di una boscaglia dal retro della sua casa e ha cominciato a correre a perdifiato (questo è successo in provincia di Lucca). Da centinaia di anni non si era più visto in Europa una cosa del genere.

Antropologicamente, ci eravamo disabituati, come parte della civiltà occidentale, alla caccia all’uomo realizzata nel senso di questa definizione: “caccia”. La questione è che il nazismo non voleva una vittoria sugli ebrei, eletti a suoi nemici e contro cui aveva ingaggiato una vera guerra, ma voleva il loro annientamento. A ciò dette manforte il potere fascista che, il 30 novembre 1943, emanò una legge per l’arresto e l’imprigionamento di qualsiasi cittadino ebreo in circolazione. Non era un’opzione, era una legge, cui tutti i servitori dello Stato dovevano ottemperare. Naturalmente, ci troviamo davanti al rovesciamento del senso della legge che, invece di essere votata al benessere e alla difesa dei suoi cittadini, era votata a perseguitarli. Dal 30 novembre 1943 non erano più solo i tedeschi, occupanti con la violenza il nostro territorio nazionale, a poter dare la caccia agli ebrei, arrestarli e deportarli, ma entrò in campo lo Stato: il ministro dell’Interno Buffarini Guidi, il capo della polizia che dettò il telegramma con cui diffuse l’ordine di arrestare tutti gli ebrei in circolazione, con le loro famiglie, e giù giù, tutta la trafila burocratica, dal Capo della polizia ai Prefetti, dai Prefetti ai questori, dai questori ai commissariati di Pubblica Sicurezza e alle tenenze dei carabinieri. Nelle ricerche del Centro di Documentazione Ebraica, di cui sono la storica, negli archivi delle questure e prefetture di tutta Italia, è emerso un mondo di burocrazia cieca e crudele, fatto di ordini di arresto indiscriminati, si legge un documento come questo: “secondo le vigenti disposizioni in materia razziale, ordino l’arresto di quella tale famiglia che risiede a quel tale indirizzo composta da … e da” e via una sfilza di persone, dai nonni, ai genitori, ai figli anche se di pochi anni.

Davanti a questa situazione, i capifamiglia ebrei misero in campo tutto il loro coraggio e la loro intelligenza per far fronte al pericolo.
Occorreva:
– uscire di casa per non essere scovati dalla polizia,
– trovare nuovi alloggi alternativi, meglio se in una città diversa dalla propria (in un’Italia dove la mancanza di alloggi era già un problema drammatico),
– aver messo da parte denaro (cosa non scontata visto l’impoverimento generale degli ebrei a partire dal 1938, quando le leggi antiebraiche avevano impedito a molti di lavorare),
– trovare il modo di ottenere documenti falsificati riempiti con nomi di fantasia, non riconoscibili come ebraici.

Pensate allo sforzo dei genitori per insegnare ai bambini a declinare i propri nuovi nomi falsi (non ti chiami più Isacco Levi, ma ti chiami Sergio Monti, Sergio Monti, hai capito? Ripeti con me “Mi chiamo Sergio Monti”). E pensate alla tragedia delle famiglie con nonni a carico. Anche loro dovevano continuamente fare e sfare le valigie, molti non ce la fecero a tenere al passo e furono lasciati dai disperati figli e nipoti negli ospedali, sotto falso nome, dove talvolta morirono soli e lontani dalle famiglie.
Nessuno sapeva niente della Shoah in corso all’Est, le comunicazioni erano difficilissime anche tra città e città, in Francia erano già partiti 59 convogli pieni di deportati ebrei destinati al campo di sterminio di Auschwitz, dal Belgio 13 , eppure, qui non se ne sapeva niente. La prima grande retata nazista a Roma il 16 ottobre 1943 colse tutti di sorpresa. Solo allora, ma meglio ancora quando fu pubblicato sui giornali l’ordine di arresto da parte del governo fascista il 30 novembre, fu chiaro che l’unica possibilità per gli ebrei di salvarsi era andare contro la legge, diventare dei clandestini sotto mentite spoglie.

Giocò a loro sfavore l’impossibilità di avere informazioni sufficienti per stabilire una strategia. Era meglio trasferirsi in una città piccola? Era meglio andare in una città grande dove c’era possibilità di disperdersi tra la folla? Era meglio rifugiarsi in campagna lontano dalle vie di comunicazione e rischiare rastrellamenti dei fascisti per trovare partigiani e renitenti alla leva? Era meglio dirigersi verso il Sud nella speranza di un prossimo arrivo delle armate anglo-americane o meglio dirigersi al Nord verso il confine italo-svizzero? Erano tutte incognite tremende per i capofamiglia.

In questo lavoro, ho cercato di spiegare come, in una situazione tanto difficile, 30.000 persone abbiano potuto salvarsi.
La principale risposta è che 30.000 persone su 30 milioni di abitanti, tante erano residenti nella parte d’Italia rimasta sotto occupazione tedesca, erano poche. Benché la polizia fosse occhiuta , non riusciva a tenere sotto controllo capillare il territorio, e il nomadismo continuo degli ebrei (dalle città alla campagna, da grandi città a città di provincia, da Nord verso Sud e il contrario) ha giocato un ruolo positivo nella loro salvezza.
Poi c’è da menzionare la buona loro integrazione sia fisica, sia intellettuale. Gli ebrei non indossavano vestiti specifici, non parlavano una lingua specifica. Erano normalissime persone, dall’aspetto fisico, difficilmente individuabili in mezzo alla popolazione.

C’è poi da ricordare che il periodo dell’occupazione fu per noi relativamente breve (massimo di 20 mesi di occupazione dal 1943 al 1945, mentre Paesi Bassi, Belgio, Francia, Lussemburgo erano occupati fin dal 1940).
E, ancora, sottolineo l’atteggiamento della popolazione, non avverso, semmai solidale.
Ho raccolto decine di casi di famiglie che si strinsero nei loro appartamenti per ospitare ebrei in pericolo, di portinaie che offrirono le cantine dei caseggiati, di contadini che indicarono casolari isolati nelle campagne o nelle montagne, di conventi che accolsero i perseguitati, di medici che fecero ricoverare negli ospedali decine di finti malati.

Gli Ebrei facevano parte dell’Italia da aiutare e furono aiutati, spesso e volentieri, non tanto in quanto Ebrei ma in quanto bisognosi di aiuto; come gli antifascisti ricercati, come i renitenti alla leva, come i prigionieri di guerra alleati che fuggivano dai campi di internamento.

Il soccorso fu messo in atto da gente comune spesso non politicizzata, non necessariamente antifascista, spesso solo a-fascista
Si sa che l’empatia è la molla per provocare azioni che, altrimenti, non si farebbero mai. Davanti a richieste di soccorso da parte di miserevoli famiglie in cerca d’aiuto, ascoltare direttamente le loro voci preoccupate, guardarli da vicino negli occhi, ha fatto saltare i dispositivi culturali promossi dal regime fascista fin dal 1936 quando i giornali avevano cominciato a propagandare l’immagine degli ebrei come disonesti e profittatori, causa della rovina della Nazione. A questi condizionamenti della propaganda antiebraica tutti erano esposti, i mass media funzionavano benissimo anche allora, la radio era ascoltata da tutti, i cinegiornali prima di ogni film, nel buio delle sale da cinema, orientavano molto efficacemente la gente. Eppure, dopo poco, l’emergenza Shoah, da emergenza per i soli Ebrei, divenne emergenza per molti.
Gli innumerevoli gesti di umanità che non ho il tempo di descrivere meglio qui, in un certo senso, hanno permesso, dopo il 1945, di rinnovare il patto di cittadinanza tra Stato italiano e comunità ebraiche, quel patto che era stato rotto dal fascismo.

Ma c’è un altro terreno di ricomposizione del patto di cittadinanza tra Ebrei e Stato italiano ed è la partecipazione di molti Ebrei alla guerra di liberazione nazionale e di resistenza anti fascista e antinazista.
Il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, sotto la mia guida, sta conducendo una ricerca capillare in proposito, per cercare di portare alla luce una storia sconosciuta, una storia di coraggio e di civiltà di cui furono protagonisti attivi circa mille persone. Questo numero, su una compagine di 39.000 persone, tante ne contava la comunità ebraica di allora, è una percentuale notevole, vista anche la condizione di terrore per l’incolumità dei propri cari sopra descritta.

C’è da sottolineare un altro elemento: la frequenza della concessione agli stessi, di riconoscimenti nazionali. In tutto, dopo la fine della guerra furono concesse 603 medaglie d’oro e, sette di queste appartengono a persone di origine ebraica. Sono Eugenio Calò (nato a Pisa, moglie incinta e tre figli arrestati dai carabinieri locali, divenne uno dei capi partigiani in Val di Chiana, fu catturato e ucciso in un eccidio collettivo); Eugenio Colorni (nato a Milano, uno degli ideatori del Movimento Federalista Europeo, ucciso per strada a Roma pochi giorni prima della liberazione); Eugenio Curiel (nato a Trieste, direttore dell’Unità clandestina, uno dei fondatori del Fronte della Gioventù, morì a Milano perché riconosciuto, inseguito e colpito a morte nella fuga), Sergio Forti (nato a Trieste, combattente nei pressi di Norcia, colto dai tedeschi, salvò due compagni e si sacrificò al fuoco nemico), Mario Jacchia (nato a Bologna, avvocato antifascista, comandante delle forze partigiane in Emilia, catturato, fu torturato e finito dai tedeschi), Rita Rosani (nata a Trieste, insegnante alla scuola ebraica, si unì ai partigiani nella zona di Verona, morì combattendo), Ildebrando Vivanti (nato a Brescia, si unì ai partigiani della Valle di Gesso, ferito in combattimento, fu condannato a morte).

Ricordo anche la presenza di personalità ebraiche di sicura preminenza sia nel Comitato di Liberazione Nazionale, sia nell’Assemblea Costituente attiva dopo la II guerra mondiale: si pensi soltanto a personaggi come Leo Valiani, Umberto Terracini, Emilio Sereni, Vittorio Foa, Rita Montagnana, solitamente considerati “madre e padri della patria”.

Quando si parla di Resistenza, vengono subito in mente immagini di ragazzi forti, armati fino ai denti, pronti ad ogni battaglia. Ma non è proprio così. I partigiani erano spesso in condizioni miserevoli, costretti a marce di chilometri per far perdere le loro tracce, in mezzo a disagi, in preda a freddo e fame. Talvolta terrorizzati di essere catturati e torturati per confessare le informazioni di cui erano a conoscenza. Il loro eroismo stava piuttosto nella scelta di preferire quella vita piuttosto che aderire alle sirene delle autorità fasciste che promettevano perdono, immunità e ricompense a chi si arruolava tra le loro fila.

Anche gli ebrei che aderirono alla Resistenza operarono una scelta precisa. Nel biennio 1943-1945 avevano davanti, per sopravvivere, poche possibilità: cercare di sconfinare nella neutrale Svizzera, celarsi sotto falsa identità, diventare resistenti. La lotta per loro si svolse su vari piani: lotta in difesa della vita propria e quella dei propri famigliari, lotta per il mantenimento della propria integrità fisica e morale, lotta per il diritto di aiutare gli altri, lotta per morire secondo modalità scelte e non imposte.

Vi segnalo un altro dato significativo: analizzando i nomi ritrovati, è facile notare che alla Resistenza, gli ebrei talvolta parteciparono non solo individualmente, ma spesso, per gruppi famigliari, troviamo cioè padri e figli, fratelli e sorelle. E’ questo un fenomeno peculiare che varrà la pena studiare. Cito solo Eugenio e la sorella Silvia Elfer, ambedue caduti, in Abruzzo; Alberto e il fratello Leone Defez combattenti nelle 4 giornate di Napoli, i fratelli Abramo e Isacco Orbach nelle Marche, i fratelli triestini Bruno e Gino Pincherle, per non parlare dei sette fratelli fiorentini Valobra, tra cui tre ragazze, tutti del Partito d’Azione, che combatterono in Toscana nel Mugello e tra cui il più piccolo, Dante, cadde in un’imboscata. Questo fenomeno della famigliarità andrà studiato meglio, per ora avanzo l’ipotesi di una tale comunità di destino tra tutti i membri della famiglia da indurne i componenti adulti a fare qualcosa tutti insieme contro l’oppressione; poteva contare anche, naturalmente, l’educazione politica e la tradizione culturale della famiglia. A questo proposito, sarà interessante cercare di capire, anche se non è un dato facile da reperire, il grado di scolarità di ciascun resistente.

L’opposizione al fascismo si declinò in vari modi, sia con la cospirazione politica, sia con la lotta armata, sia partecipando a organizzazioni clandestine di soccorso.
Abbiamo esempi importanti in ognuna di queste attività. La ricerca viene convogliata sui documenti conservati dalla Fondazione CDEC stessa. Abbiamo un fondo specifico raccolto negli Anni Cinquanta dalla Federazione Giovani Ebrei d’Italia che raccolse, subito, a pochi anni dalla guerra, le testimonianze di padri e nonni sull’argomento. E’ questo il nucleo dei documenti di partenza sul quale si è costruito l’archivio del Centro di Documentazione a Milano, che è oggi fiorente archivio di decine di migliaia di documenti.

L’altra fonte, importantissima è il fondo archivistico costituito, nell’immediato dopoguerra, dalle Commissioni regionali per il Riconoscimento delle Qualifiche e delle Ricompense ai Partigiani (RICOMPART). È questo un enorme fondo amministrativo perché si tratta delle domande rivolte dagli stessi partigiani alla pubblica amministrazione per le ricompense che potevano ottenere con quel riconoscimento (tra le quali, importante, è l’esenzione dal servizio militare). Il fondo è stato versato pochi anni fa all’Archivio Centrale dello Stato, così come era stato prodotto, cioè allo stato brado. Per fortuna, a partire dal 2017, l’Istituto Superiore per gli Archivi, con la collaborazione della Scuola Normale Superiore di Pisa, ne hanno digitalizzato l’indice nominativo costituito da scarni cartellini, che abbiamo modo di analizzare su internet. Sono 540.245 cartellini e sfogliando quelli, per lo meno dal punto di vista onomastico, possiamo trarre i nomi che paiono appartenere a cittadini ebrei.

Questo progetto di ricerca del mio Centro si appoggia anche, naturalmente, sulla consultazione di tutta la cospicua bibliografia disponibile. E’ iniziato nel 2021 e culminerà, spero in un libro nel 2025. Con esso, abbiamo potuto delineare tutte le possibili forme di partecipazione alla Resistenza: persone che furono lanciate col paracadute oltre le linee nemiche dai servizi segreti alleati come Enzo Sereni, Renato Levi o Luciano Servi; combattenti nella guerriglia urbana come Giorgio Formiggini a Roma o Alessandro Sinigaglia a Firenze; giovani come il tredicenne Franco Cesana o il sedicenne Raffaele Del Vecchio, ultracinquantenni come Luigi Zarfati o Edoardo Della Torre; intellettuali come Emanuele Artom o giovani popolani come Emanuele Calò; capi brigata come Mario Levi a Milano e perfino capi Divisione come Hermann Wigoda sui monti sopra Savona.

Le notizie raccolte sono state digitalizzate e messe all’interno del portale, https://resistentiebrei.cdec.it/ un sito, inaugurato nella primavera del 2022, dove sono presenti centinaia di biografie dei resistenti ebrei. On line, si trova il database dove ricercare le varie persone e i documenti ad essi attinenti. Tra le sezioni del sito, vi è anche una parte specifica intitolata “Vivere da resistenti”, dove è possibile conoscere 15 parabole di vita particolarmente significative ed esemplificative dell’impegno degli Ebrei nella resistenza: tra i vari ricordo Pino Levi Cavaglione, Matilde Bassani e Lea Loewenwirth.

Non vanno dimenticati gli esempi della cosiddetta resistenza civile, l’opera cioè di soccorso, materiale e morale, portata ai correligionari perseguitati e resi fragili dalla situazione di estremo pericolo in cui si trovò tutta la comunità ebraica. Anche in questo caso, abbiamo esempi luminosi come quello di Mario Finzi, Goffredo Pacifici o Carlo Morpurgo, arrestati durante la loro attività di fabbricazione di documenti falsi o di accompagnamento alla frontiera e uccisi lontano dall’Italia.

Ricordare il contributo anche degli ebrei alla Resistenza è opera di grande valore perché è, implicitamente, un’indicazione per i giovani di oggi di inseguire l’etica del coraggio e della giustizia.

Concludo con le parole di Gilberto Coen, giovane universitario veneziano iscritto all’università di Losanna dove poteva continuare i suoi studi a lui impediti in Italia dal fascismo. Un certo giorno, venne a sapere che la sua adorata nonna, assieme ai suoi zii, erano stati arrestati mentre tentavano di varcare il confine italo-svizzero. Sapeva che erano perduti. Decise di lasciare la sicura Svizzera e rientrare in Italia per dare il suo contributo alla lotta anti nazista in cui ci rimise la vita. Prima di partire, il 16 maggio 1944 scrisse agli ignari genitori queste parole: “…bisogna che anche tu, mamma, capisca tutto questo perché è necessario inquadrarlo nella durezza atroce dei tempi che viviamo. Ditemi voi: chi, se non io, deve combattere questa guerra? Forse che un giovane inglese, od un americano od un neo-zelandese ha più ragioni di me di prendere le armi in pugno? Tutto ha una suprema logica a cui sarebbe delittuoso volersi sottrarre. Ma siate sereni e fieri di me, che ho avuto tanta fortuna da realizzare le mie sane aspirazioni …Vi abbraccio con tutto l’affetto di cui è capace il vostro Gilberto”.
Ecco di lettere così, ne ho trovate tante, sono il segno della parola ebraica “Amidà”, che è anche il lemma che definisce la preghiera in posizione eretta degli ebrei, ovvero a schiena dritta di fronte alle avversità. Voglio pensare che ciò voglia dire anche vivere in maniera retta, come cercano di fare gli ebrei nel mondo, malgrado l’ondata di ostilità che stanno affrontando in questo Giorno della memoria 2024, dove mi sembra, invece, che tutto sia destituito di senso, anche la parola genocidio.

 

Video dell’incontro