Le donne, l’esilio, la letteratura. Al Teatro F. Parenti, Giulio Busi, Roberta Ascarelli e Haim Burstin presentano un saggio di Fiona Diwan su Isaac B. Singer

Eventi

Di Roberto Zadik

Scrittore geniale, ormai un classico della letteratura del XX secolo e al tempo stesso figura ribelle e piena di tormentato humour – nei romanzi e nella vita –, Isaac Bashevis Singer e la sua narrativa sono stati protagonisti dell’evento “Singer: le donne, l’esilio, la letteratura”. L’iniziativa si è tenuta in occasione della presentazione del libro della giornalista Fiona Diwan Un inafferrabile momento di felicità – Eros e Sopravvivenza in Isaac B. Singer, (Guerini e Associati, 24 euro), mercoledì 6 ottobre al Teatro Franco Parenti davanti a un pubblico appassionato di 140 persone, un evento in cui si è discusso su temi, stile, approccio letterario, biografia ma anche misteri e curiosità della produzione del grande scrittore, da Ombre sull’Hudson a Il Cialatano, da Keyla la Rossa a Shosha, a La Famiglia Moskat a Nemici, una storia d’amore.

Introducendo la serata, impegnata nel duplice ruolo di giornalista e di autore, Diwan ha presentato i vari relatori.  Haim Burstin docente di Storia Moderna all’Università Milano-Bicocca, yiddishista, traduttore di racconti e autori della letteratura yiddish; Roberta Ascarelli, storica della letteratura tedesca, germanista e docente all’Università di Siena e, a Roma, di Letteratura ebraica contemporanea al Corso di Laurea in Studi Ebraici Ucei; Giulio Busi, direttore del Dipartimento di Giudaistica alla Freie Universitat di Berlino, saggista, scrittore e esperto di mistica ebraica nonchè storico del pensiero rinascimentale italiano, da Pico Della Mirandola, a Lorenzo il Magnifico a Michelangelo.

In apertura, l’autrice ha raccontato la nascita del suo libro, dedicato a un autore su cui molto poco – in fatto di saggistica critica – è uscito in lingua italiana. Uno studio e un’esplorazione a cui la pubblicazione per Adelphi dei due inediti di Bashevis Singer, Keyla La Rossa e Il Ciarlatano, hanno dato nuovo vigore ma che erano già in gestazione da tempo. Colpita dal fatto che «a trent’anni dalla morte di Bashevis non ci fosse ancora nulla in lingua italiana in materia di letteratura critica – se non una biografia tradotta dal francese e qualche articolo accademico -», Diwan ha evidenziato come fattori determinanti nella genesi del libro sia stato il bisogno di colmare una lacuna editoriale unito all’interesse scientifico e allo studio sistematico che ne è seguito. Questo è infatti il primo volume critico “nato” in lingua italiana su Singer. «Ma c’è anche qualcosa di molto personale, intimo, inconscio, in questo ritorno a Singer, uno slancio di giovinezza che pensavo perduto. A volte, le cose emergono dalla clandestinità emotiva nella quale le abbiamo messe, e così è stato per questo autore. La lettura di Singer ha profondamente coinvolto la mia generazione, l’abbiamo amato e letto tutti, ritrovarlo è stato come riabbracciare la me stessa di allora, rivivere la coloritura, il clima emozionale di quella ragazza che ero a fine Anni Settanta».

Più di due anni di lavoro, la restituzione sintetica delle numerose voci di critica letteraria – anglosassone, tedesca e francese – spese su Singer negli ultimi decenni e utili a chi volesse oggi studiarlo. Un testo che è anche uno strumento di approfondimento per lettori, studenti e appassionati ma che si legge nella scorrevole piacevolezza di un libro rivolto a tutti. Godibile anche per i non addetti ai lavori. Come hanno sottolineato i relatori e docenti presenti, lungi dall’essere un divertissement o un esercizio di bella scrittura, questo testo è arrivato a colmare un vuoto, una mancanza nel panorama del mercato editoriale italiano.

Ma quali le caratteristiche principali di questo prolifico narratore diviso fra una Polonia lacerata dalle persecuzioni e la nuova identità di ebreo esule, sradicato, in America? Con rapide pennellate, Diwan ha illustrato le tante contraddizioni di Singer, la costante tensione fra ricerca spirituale e le pulsioni turbinose e oscure che lo abitavano, «i suoi luftmensch, i suoi uomini fatti d’aria, sospesi tra cielo e terra, tra sacro e profano, tra il puro e l’impuro; i suoi eroi svaporati», come ha sottolineato Diwan, «che non sanno se volare o precipitare, se perdersi o trovarsi; e poi il pessimismo allegro che innerva i suoi grandi romanzi americani, il corpo a corpo con se stesso e con l’Onnipotente”. E ancora lo yiddish e l’inglese, la produzione “bicefala” e il bilinguismo, la contemporaneità del suo orizzonte tematico «perchè Singer merita una riscoperta e ha molte cose da dire alle giovani generazioni». E ancora, la capacità di Singer di ricomporre un dissidio: quello tra l’orizzonte metafisico e spirituale che ci abita e una coscienza contemporanea nutrita di nichilismo e senso di assurdità dell’esistenza». Parlando di Keyla la Rossa e il Ciarlatano, l’autrice ha evidenziato l’originalità di questi due romanzi “che Singer non ha voluto pubblicare” e la profonda originalità in fatto di genere letterario rispetto al resto della sua produzione. A questo proposito il romanzo, Keyla la Rossa, rappresenta un unicum, «la prima e unica gangster-novel di Singer, romanzo di malavita, ambientata tra Varsavia a New York, eroi in fuga dalla polizia segreta zarista, l’Okrana, che aveva scatenato una caccia ai socialisti, anarchici, bundisti e ebrei», mentre Il Ciarlatano «è una commedia brillante, una pochade dal fondo drammatico visto che i suoi protagonisti sono tutti dei profughi in fuga dalla Polonia invasa dai nazisti».  Come ha ricordato «il testo è rimasto lungamente inedito forse perché Singer non voleva che temi scabrosi sporcassero la memoria della Shoah, consapevole di quanto ci fosse ancora molto antisemitismo in giro».

Successivamente, la studiosa  Roberta Ascarelli  – che ha scritto l’introduzione al saggio -, ha invece approfondito la figura di Singer a livello letterario e il confronto con due grandi autori di lingua tedesca, Hermann Hesse e Franz Kafka, askenazita anche lui.  La studiosa di letteratura tedesca ha ricordato quanto Singer fosse dominato «da contrasti e inquietudini, da una serie di alti e bassi anche nella sua vasta produzione letteraria, profondamente ebraico nel suo bisogno di raccontarsi». Paragonando Singer a Hesse ha ricordato «che mentre i personaggi di Hesse alla fine trovano la redenzione quelli invece di Singer presentano un rapporto più complesso col peccato e con il Male, anime nude alla fine meno sicure del fatto che salvezza e redenzione possano un giorno arrivare. «Nei suoi romanzi, siamo continuamente stimolati a interrogarci sul rapporto fra peccato e redenzione, fra salvezza e caduta, in un campo di tensioni opposte e contrarie che si disputano la nostra anima”. È la battaglia etica tra Yetzer haRà e Yetzer haTov che da sempre si abita gli uomini, il bisogno di Assoluto che lotta con le pulsioni terrene e le contraddizioni di ciascuno.

Successivamente, Giulio Busi si è soffermato sul lato chassidico e cabalistico dello scrittore polacco quando lo studiava in traduzione ebraica – e non in yiddish – all’Università Ca Foscari di Venezia. «Singer è stato per me un autentico figlio del mondo chassidico”, ha spiegato, «un personaggio insieme classico e anticlassico, estremamente labirintico, capace di perdersi in eterno e di essere tantissime cose insieme, in cui possiamo trovare tutto e il contrario di tutto». Interrogandosi su quanto Singer abbia davvero colto della Qabbalà, Busi si è soffermato sulla contraddittorietà e ambiguità del suo personaggio sia a livello tematico sia artistico, talmente prolifico da essere gioco forza discontinuo. Autore disordinato e disarmonico, Busi ha raccontato come Singer «fosse affascinato dall’idea cabalistica delle Scintille divine disperse dopo la rottura dei vasi, dal loro impatto con l’oscurità della storia e del mondo» che, come ha ricordato Busi, corrispondono ai dolori della Diaspora. «A ben vedere, tutta la sua opera», ha proseguito,  «è uno stato di perdita di queste scintille, situazioni, corpi che dovrebbero tornare a un ordine».

Fra i numerosi spunti di riflessione forniti dalla serata, Haim Burstin ha rimarcato l’aspetto torrenziale della produzione di Singer, enfatizzando lo spirito d’indagine e di sintesi del testo di Fiona Diwan «preciso ma scritto col cuore, che coglie l’essenza dell’autore, il suo senso di spiazzamento, il suo essere sempre in un Altrove straniante, “fuori fuoco” e “fuori luogo”, displaced». Tornando ai due romanzi, Keyla la Rossa e Il Ciarlatano –  «due falsi inediti poichè uscirono sul Forwerts, in Yiddish» -, lo yiddishista e studioso ha analizzato «il laboratorio letterario, l’officina creativa di Singer e il suo meraviglioso Yiddish, una lingua pastosa e ineguagliabile, molto lontana dalla mameloshn imbastardita in uso presso gli ebrei americani», quel potato-yiddish che continuamente i personaggi di Singer stigmatizzano.

Quando arrivò in America, Singer parlava questo “pastoso Yiddish polacco”, purissimo, semplice, chiaro, alla portata di tutti, privo delle acrobazie lessicali e filosofiche di chi voleva accreditare lo yiddish come un idioma nobile, affrancandolo dallo stigma di vernacolo quotidiano, spiega Burstin. Una lingua sull’orlo della scomparsa, con un mondo laico e ashkenazita americano che “lo adulterava sempre di più con l’inglese”. Accennando al contesto in cui Singer esordì negli Stati Uniti, Burstin ha ricordato che “fu molto bravo a organizzare il suo lavoro, firmandosi con vari pseudonimi, da Warshawsky a Segal a Itzchok Bashevis, a seconda dei testi che scriveva». E di come, in questi ultimi due romanzi pubblicati per Adelphi, continui a vibrare la tensione del romanzo a puntate e lo spirito del feuilletton. Un magnetismo, una scrittura capace di calamitare il lettore e di tenerlo incollato alla pagina «anche nella sua narrativa meno artisticamente riuscita. Perché quando cominci un suo romanzo non lo molli più!».

Infine, tra i molti temi emersi durante la serata, quello che sembra essere risultato attualissimo è quello del narcisismo maschile che abita molti personaggi singeriani – e Singer stesso -, seduttori impenitenti, dongiovanni abitati da un eros inestinguibile, unica fiammella vitale in un abisso di desolazione, quasi un lenimento al senso di morte che questi profughi si portano addosso nelle loro fughe. Esito di traumi e di una psiche violentata dalle troppe persecuzioni. Un narcisismo sorridente e persino affabile, nutrito di smarrimento, di angoscia, di senso di perdita. Quello che abita i vari Hermann, Yasha, Hertz e Bashevis stesso è un vitalismo sessuale pieno di sensi di colpa. E, come tutti i narcisismi, estremamente distruttivo, manipolatorio, animato da un autolesionismo poligamico e onnipotente. Con eroi che, dice Diwan «danzando sul filo di una duplicità estrema, in equilibrio instabile sul crinale di doppie o triple storie d’amore, risultano estremamente attuali».