La bontà del dialogo ebraico-cristiano e i passi ancora da fare

Eventi

di Vittorio Bendaud

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Papa Francesco al Muro del Pianto il 26 maggio 2014

A giorni papa Francesco si recherà in visita alla Sinagoga di Roma. L’evento si preannunzia rilevante, anche in relazione al successo mediatico che, in modo inedito, accompagna detti, gesti e azioni di questo pontificato.

Per comprendere il Dialogo ebraico-cristiano, il significato della visita papale, le attese che vi sono da parte ebraica e da parte cristiana, gli scenari che tale avvenimento potrà aprire, occorrerebbe forse offrire una disamina dei molti documenti e pronunciamenti –
alcuni recentissimi – circa il positivo re-incontro tra ebrei e cristiani, partendo dalla Dichiarazione Conciliare Nostra Aetate, testo che ha impresso una svolta e una cesura netta con un passato negativo plurisecolare.

Non lo farò, perché il primo grande vulnus è che questa ingente messe di documenti è purtroppo pressoché ignota ai più, rimanendo così affare di discussione per addetti ai lavori, appassionati e circoli ristretti, spesso autoreferenziali.

Il Dialogo ebraico-cristiano, che ha richiesto e richiede un investimento intellettuale, religioso e morale enorme da parte della Chiesa Cattolica e dei suoi migliori intelletti, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI e Carlo Maria Martini, risente così di un forte scollamento tra quanto affermato ufficialmente e quanto divenuto prassi e pensiero comune dei fedeli: è cioè ampiamente mancato il coinvolgimento attivo e la formazione a tale dialogo e alle sue specificità di molti vescovi, di buona parte dei parroci e degli operatori pastorali. Le eccezioni vi sono in quelle diocesi in cui in prima persona i vescovi si sono spesi con entusiasmo per questo Dialogo, ottenendo risultati duraturi e abbondanti: si pensi all’operato di Alberto Ablondi a Livorno e di Carlo Maria Martini a Milano.

Da parte ebraica, per converso, vi è stata – e in alcuni casi vi è – molta diffidenza, inevitabile in certa misura data la drammatica storia pregressa, e gli ebrei coinvolti, specie dapprincipio, sono stati spesso ebrei laici, poco osservanti o non credenti, con una conoscenza “culturale” ma non “religiosa” dell’ebraismo, sì che cristiani credenti si trovarono a dialogare di tematiche religiose con ebrei lontani dall’osservanza o agnostici.

Infine, le autorità rabbiniche seriamente e onestamente impegnate nel Dialogo ebraico-cristiano sono relativamente poche, esposte a numerose tensioni con una maggioranza di rabbini abbastanza scettica, che spesso avanza critiche, alcune delle quali tuttavia legittime e acute. Vi sono poi coloro che prendono parte a pubbliche iniziative di Dialogo ebraico-cristiano degradandolo a necessità “diplomatica” di buon vicinato tra fedi diverse; cosa certamente non trascurabile, ma svilente le specificità proprie del Dialogo ebraico-cristiano da entrambe le prospettive. In questi decenni i più eminenti rabbini che nel mondo, con sensibilità e opinioni diverse, si sono attivati a favore del Dialogo ebraico-cristiano, producendo scritti e riflessioni puntuali e progettuali sono, in particolare, Rav Yitz Irving Greenberg (USA), Rav Shlomo Riskin (IL), Rav J. Dov Soloveitchik (USA), Rav Eugene Korn (IL), Rav Elio Toaff e Rav Giuseppe Laras (Italia), Rav Jonathan Sacks (UK), Rav David Hartmann (IL), Rav René Shmuel Sirat (Fr), Rav David Rosen e Rav Shear Yashuv HaCoen (IL).

Il fatto che il Dialogo ebraico-cristiano continui, nonostante le grandi difficoltà che ho segnalato, nonostante le atrocità della storia passata tra ebrei e cristiani e nonostante i rovesci e le inquietudini della storia presente, è forse una comprova della sua intrinseca bontà; è un segno di speranza e, infine, almeno a mio avviso, possiede un quid di provvidenziale.

Vorrei enucleare alcuni punti che ritengo debbano essere affrontati tempestivamente per rafforzare un Dialogo che è giunto per certi versi troppo tardi e che è ancora molto giovane.

giovanni-paolo-II-toaff-ansaI) La problematica dell’antisemitismo, il suo studio e la sua condanna. Oggi l’antisemitismo in tutta Europa ha raggiunto, dilagando anche violentemente, i suoi picchi più alti dall’ascesa del nazismo alcune decadi fa. Molte Chiese Cristiane, tra cui la Chiesa Cattolica, condannano l’antisemitismo. Il problema è che il lemma “antisemitismo” viene quasi sempre identificato con “Shoah e nazismo”, risultando così abbastanza facile una condanna postuma. Il nazismo ha invece costituito unicamente la punta di un iceberg alla cui edificazione in parte essenziale purtroppo hanno contribuito il pensiero e la prassi cristiana. In particolare, l’antisemitismo cristiano fece dell’ebreo un “mostro” e non un “nemico” – categoria odiosa, ma comunque umana – che vicendevolmente invece Islam e Cristianesimo impiegarono lungo i secoli l’uno contro l’altro. È la categoria di “mostro” – o troppo intelligente o troppo perverso – che, laicizzatasi, ancora soggiace alla diffidenza di molti nei confronti degli ebrei. In secondo luogo, oggi, l’antisemitismo coincide per lo più con l’antisionismo, che è cosa radicalmente diversa ed estranea alla legittima critica ai provvedimenti che lo Stato di Israele può adottare. Chiunque conosca le più bieche e classiche argomentazioni antisemite nei secoli sa bene che esse si sovrappongono perfettamente alle argomentazioni e al dizionario antisionista.

In relazione all’antisionismo e alla sua ferma condanna, è urgente che le Chiese prendano posizione netta e non equivoca, anche perché ormai oltre la metà del popolo ebraico dimora in Terra di Israele e la Diaspora è in progressivo ridimensionamento.

II) L’antigiudaismo latente. Il mancato accesso della maggioranza del clero ai documenti del Dialogo e la conseguente non penetrazione dello stesso tra i fedeli ha fatto sì che moltissimi stereotipi antiebraici indebitamente persistano. Si pensi all’ancor diffusa opposizione tra “Dio della giustizia e del legalismo freddo e sterile” e la “religione dell’amore e della misericordia”. Il Concilio Vaticano II ha riformato, eliminandone l’apparato antigiudaico, i soli riti latini e non i riti dei cattolici orientali, ancora abbondantemente connotati da teologie sostituzioniste e antigiudaiche. Nel mondo orientale, specie per quel concerne le Chiede del mondo arabo, l’antigiudaismo teologico si è così andato a saldare con l’antisionismo. A complicare la questione, vi è poi il fatto che queste antichissime Chiese, sia cattoliche sia ortodosse, sono state e sono Chiese martiri sia del comunismo sia dell’Islam politico, e uno dei principali fattori che ha permesso loro di resistere è stata proprio la fedeltà e l’amore per le loro antiche liturgie, la cui vetustà, nel sistema teologico orientale, assicura la fedeltà alla tradizione e l’adesione alla verità che esse proclamano. Ne consegue che qualsiasi tentativo di riforma per allentare l’antigiudaismo liturgico, per quanto necessario e auspicabile, sia estremamente difficile e delicato.

III) Difesa dei Cristiani di Oriente. Le persecuzioni efferate che stanno subendo le comunità cristiane richiedono pronunciamenti di solidarietà e vicinanza ai cristiani da parte degli ebrei, specie nella prospettiva del Dialogo, come, ad esempio, più volte ha fatto pubblicamente il rabbino Laras. In tale ottica, è richiesto un lavoro sinergico di denunzia, volto a dar voce a chi non ha voce, come pure a offrire a queste persone aiuti effettivi. Nel caso della Chiesa Caldea, ossia dei cristiani di Iraq, il fatto che si tratti di una Chiesa ancora parlante – e orante – aramaico rende maggiormente significative azioni congiunte in soccorso di queste persone, visto lo strettissimo vincolo linguistico e culturale che unisce la lingua aramaica a quella ebraica e, dunque, almeno in un certo senso, la Chiesa alla Sinagoga.

IV) Memorie positive condivise, non solo negative. Il Dialogo, a fronte sia dell’eredità sfigurata della storia passata sia della barbarie del presente, ha urgente necessità di trovare memorie positive condivise di cui alimentarsi. Può trattarsi certamente della memoria di personalità che si spesero con coraggio, dopo secoli di silenzio e di sospetto, per il re-incontro tra ebrei e cristiani (penso a Carlo Maria Martini, Giovanni Paolo II e non solo), ma, ancor più, sarebbe fruttuoso preservare le storie degli tzaddiqìm – dei giusti – che si adoperarono per salvare, se cristiani (penso a Dietrich Bonhoeffer, al card. Elia Della Costa e Gino Bartali e a moltissimi altri), gli ebrei o, se ebrei, i cristiani, come è avvenuto nel caso di molti cristiani armeni all’epoca del Genocidio, salvati da numerosi ebrei. Circa il cristianesimo armeno, occorre che il Dialogo tra ebrei e cristiani si alimenti della sua storia e della sua tradizione vivente, poiché è l’unica Chiesa che ha una sua precisa caratteristica identitaria linguistico-nazionale imprescindibile e irrinunciabile e che ha esperito sorti analoghe, per certi versi, al Popolo Ebraico: la diaspora e l’esperienza di minoranza assoluta, la dhimmitudine sotto l’Islàm, il genocidio, il ritorno nella terra dei propri padri, l’essere sopravvissuta a una lunga e dolorosa storia, l’aver prodotto una autonoma cultura – e specificatamente una cultura credente – in osmosi creativa con altre culture, il rapporto, infine, tra diaspora e ritrovata sovranità nazionale.

V) La Bibbia, centro e orizzonte del Dialogo. Scriveva con profetica lucidità A.J. Heschel: “Una radice importante del nichilismo contemporaneo è l’antica resistenza alla concezione ebraica del mondo e dell’uomo. La Bibbia ebraica ha distrutto un’illusione, l’illusione secondo la quale si può essere innocenti testimoni o spettatori di questo mondo”.

Al riguardo, ripropongo le parole di Giuseppe Laras: «Comunemente, in larga misura probabilmente a torto, si pensa che i diritti umani universali, quelli che con tanta fatica, sofferenza e milioni di morti siamo in parte riusciti a conquistare, derivino solo dal diritto greco e romano, da queste culture e dalle loro successive evoluzioni. I diritti, per come li comprendiamo noi, devono essere valevoli sempre e per tutti, ed è proprio questo che li rende, in una certa misura, universali. Ebbene, in Grecia era “uguale”, e quindi investito di diritti, solo chi era maschio, libero, greco, adulto e non necessitato a lavorare per vivere, cosa altrimenti disdicevole. È la Bibbia ebraica, la Torah, a rivoluzionare tutto ciò. È la Bibbia ebraica a introdurre nella civiltà umana la libertà quale DNA costitutivo dell’uomo e del creato, speculare alla libertà del Creatore. È la Bibbia ebraica a sostenere che il lavoro umano rende l’essere umano simile a Dio nel creare. È la Bibbia ebraica, a porre, con la straordinaria rivoluzione introdotta dallo Shabbat, un limite al lavoro, altrimenti deleterio, rendendo l’uomo simile a Dio anche nel riposare. È con lo Shabbat che vengono inventati i “diritti umani universali”, includendo uomini, donne, stranieri, schiavi e perfino animali. È con lo Shabbat e con i precetti biblici di aiuto ai poveri e di costruttiva solidarietà con i derelitti della società che trova fondamento la nostra idea di “welfare” e non da altre culture. (…) L’erosione della conoscenza della Bibbia, non in quanto “tributo antiquario” ma piuttosto in quanto “forza creatrice e rigenerante”, è uno dei fatti più inquietanti per il nostro futuro sia religioso, sia culturale nelle sue varie declinazioni, sia in termini economici e politici. Il riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell’etica è un impegno religioso possibile, dalla fecondità straordinaria, condivisibile tra ebrei e cristiani: un impegno di cui si avverte l’urgenza impellente e drammatica in questi anni di crisi, di confusione assordante e di mediocrità. Tale contributo religioso, culturale e morale, congiunto di ebrei e cristiani, per secoli è stato negato al mondo, risultando sinora ampiamente inedito ed estremamente necessario».

Ecco che allora, in conclusione, trovano forza e significato rinnovati le parole pronunziate molto tempo fa dal filosofo Martin Buber a un gruppo di cristiani a Stoccarda: «Che cosa c’è tra voi e noi in comune? Se prendiamo la domanda in senso stretto, diciamo un Libro e l’attesa. Per voi il libro è un vestibolo, per noi è un santuario; ma in questo luogo noi possiamo sostare insieme e insieme ascoltare la voce che in esso parla. Ciò significa che noi possiamo lavorare insieme per evocare l’ardente discorso di quella voce, insieme noi possiamo redimere il mondo che vive incarnato. La vostra attesa è diretta verso una seconda venuta, la nostra a una venuta che non è stata anticipata da una prima. Per voi il senso della storia mondiale è determinato da un assoluto punto di mezzo, l’anno zero; per noi è un interrotto flusso di note che si susseguono l’una all’altra senza pausa, dall’origine alla consumazione. Ma noi possiamo attendere l’avvento dell’Uno insieme, e ci sono momenti in cui noi possiamo preparare la via davanti a Lui insieme».