Una domenica con Giuntina e la letteratura ebraica

Eventi

In questa tre giorni milanese dedicata ai libri, gli eventi sono stati centinaia e tutti di grande interesse e per tutti i gusti. Ogni aspetto della vicenda editoriale di un libro, dai contenuti, alla grafica, alla produzione e alla distribuzione, sono stati dipanati, a partire dal Castello Sforzesco, in un filo lunghissimo, colorato e tenace che ha unito teatri, biblioteche, librerie, luoghi di incontro per tutta la città.
Unica nota stonata, stonatissima, la contestazione subita da David Grossman al Teatro dell’Elfo.

Per questa ricchezza di proposte, tanto più è stato una piacevolissima sorpresa il grande successo dell’iniziativa offerta ai Milanesi dalla Comunità ebraica con la Casa editrice Giuntina. “Sono davvero soddisfatto e felice -dice Daniele Cohen, assessore alla cultura della Comunità- oggi in sinagoga c’erano i milanesi, curiosi, attenti, motivati a conoscere qualcosa di più della cultura ebraica e della nostra editoria. Non è stato un evento paludato e istituzionale, non c’erano le autorità ma la gente. È un evento che abbiamo fortemente voluto, e abbiamo offerto alla città un incontro di grande livello grazie ai nostri ospiti”. Nel suo saluto di apertura, Cohen ha ringraziato la Giuntina e ha detto “Oggi Milano è la città del Libro e il popolo del Libro vuole spiegare il significato della scrittura e della lettura per la cultura ebraica. Ringrazio gli ospiti che hanno accettato il nostro invito; abbiamo chiesto loro di ‘adottare’ un libro della Giuntina, da cui partire per riflessioni ed emozioni. Grazie a Bookcity, ai ragazzi della sicurezza, e a Giuditta Ventura, Daniela Di Veroli, Mira Maknouz, rav Arbib”. E alla fine della giornata ha aggiunto: “Ringrazio soprattutto, di cuore, a nome della Comunità ebraica, le centinaia di cittadini Milanesi che hanno affollato la sinagoga durante tutta la giornata ed hanno pazientemente atteso in coda. Hanno dimostrato di aver colto in pieno il significato di questo incontro”.

Si è detto della qualità degli interventi. David Bidussa ha affascinato il pubblico con un profilo dell’editore ideale, presentando il catalogo della Giuntina. Andrée Ruth Shammah ha offerto un prezioso spunto di riflessione dando voce a Giacoma Limentani e alla sua visione della responsabilità del lettore. Stefano Levi Della Torre ha presentato un diario filologico, di grande interesse, sul linguaggio della propaganda nei regimi totalitari, con aneddoti, esempi e testimonianze dal libro di Klemperer. Di angeli, interiorità e speranza ha parlato Walter Mariotti, citando il volume della Chalier, allieva di Levinas. Giulio Giorello poi ha concluso con una presentazione dell’opera di Rembrandt e la sua visione del mondo ebraico nel secolo d’oro dell’Olanda.
Un mondo a parte, tutto da ridere, è stato recitato da Daniel Vogelmann.

Rav Arbib prende la parola per primo, per fare gli auguri alla manifestazione, “presentiamo il catalogo della Giuntina, che conduce un’opera meritoria di divulgazione della cultura ebraica. I libri ebraici una volta erano una rarità, oggi ne abbiamo moltissimi, letteratura saggi… Vorrei quindi fare una riflessione sulla idea stessa di divulgazione, citando un passo talmudico che parla della traduzione della Torà in greco, criticandola, e un passo della Torà che dice che Moshè, attraversando il Giordano, traduce la Torà in 70 lingue… Qual è la cosa giusta? Nel Talmud si parla di una traduzione ‘commissionata’, in Egitto da Tolomeo, e il Talmud riporta alcuni esempi di questa traduzione problematica. Dice che il problema è che in qualche modo ogni traduzione è un “tradimento”, ma dal punto di vista ebraico la cosa più grave è che la traduzione in Greco cambia passi della Torà che rischiano di essere troppo violenti, o dove gli ebrei possono non fare bella figura. Il testo viene edulcorato, diventa apologetico. Questo è sbagliato, anche se a volte il motivo è apparentemente nobile, si scrive per difendersi; ma la Torà deve essere letta in tutti i suoi contenuti e interpretata per come è scritta in ebraico. Non dobbiamo sempre pensare di doverci difendere. In genere si difendono i colpevoli.
Ma c’è un ulteriore elemento. Molto spesso la traduzione adatta l’Ebraismo alla cultura cui ci rivolgiamo. Per farci capire meglio nel contesto culturale in cui viviamo, operiamo una traduzione che tradisce. Deve invece esserci uno sforzo di immedesimazione nel contesto ebraico. Anche Moshè, abbiamo detto, traduce: ma c’è una sostanziale differenza. Non c’è un committente, è una iniziativa interna, non c’è imposizione, mentre la traduzione imposta è limitata e condizionata”.

Schulim Vogelman presenta la Giuntina e ringrazia la Comunità ebraica, Daniele Cohen, Francesca Bolino per l’organizzazione dell’evento. “Come Giuntina -dice- partecipare a Bookcity Milano riflette la nostra imposizione editoriale, che è quella di pubblicare libri ebraici per tutti. Sono convinto che l’ebraismo, nel suo essere cultura e linguaggio, è di tutti”.
Il primo ospite è David Bidussa, che presenta il catalogo della Giuntina e traccia, attraverso citazioni dalla produzione della casa editrice fiorentina, il profilo delll’editore ideale.
“Il centro della crisi del libro è la crisi dell’editore”, dice. L’editore è un mestiere strano in cui il profitto necessario non può essere l’unico criterio. “Creatore dal nulla, l’editoria è fatta di persone che ci credono; manualità e creatività ne sono gli strumenti, non esiste un libro uguale ad un altro. Questo ragionamento vale per la Giuntina; il catalogo è la sua volontà di produzione”. Bidussa propone considerazioni su libri, sul mercato. I libri che si vendono, che diventano best seller, perché vendono? Può essere il caso di un libro banale come “50 sfumature (dice ‘colpi’, lapsus freudiano) di grigio”. Il suo valore è bassissimo, che senso ha pubblicare quel libro, è solo profitto. L’editore si chiede se un certo libro creerà domande, farà vendere ancora…

Il catalogo Giuntina corre su diversi binari: c’è la letteratura della Shoah, il primo libro pubblicato fu La notte di Elie Wiesel, quando ancora nessuno lo conosceva. Il primo pensiero va alla forma tipografica, colori pastello, titoli in fuga in alto e in basso. È una grafica estremamente sobria, simile alla prima grafica Einaudi con lo stesso tipo di lettering; al tatto la carta è satinata ruvida, come la piccola biblioteca Adelphi. Il lettore Giuntina è generazionale, viene dall’impegno pubblico; un gruppo di lettori formato in gran parte da non ebrei, portati a quell’argomento: l’ebraismo dell’Europa Est. In catalogo sono tanti i mondi ebraici, ma non tutti. Non c’è per esempio il mondo ebraico iberico-americano.
C’è il mondo ebraico italiano, tedesco, c’è la filosofia ebraica contemporanea, ci sono i mondi israeliano e palestinese. Possiamo dire che sono libri di cui Giuntina ha inventato un bisogno. Per prima ha pubblicato Irene Nemirovsky, prima di Adelphi. Nel 1985 le poesie di Else Lasker Schüler, prima di tutti.

I lettori oggi sono per la maggior parte poco sensibili, poco curiosi, per quanto vogliano sembrarlo. Sono appiattiti sul best seller. Far scoprire autori di qualità. Questo è il vero ruolo di un editore.
Poi c’è il ruolo della storia. Persecuzione. I luoghi della morte. Io la trovo discutibile. Mi piacerebbe che nel calendario civile non ci fossero solo i giorni per la memoria della morte ma della vita. L’uomo deve essere proiettato in avanti. Giorno della scelta, dovrebbe esserci.
Non c’è un atlante storico, la storia andrebbe studiata su un atlante geografico. Dei popoli.
La storia delle diaspore ebraiche è la storia di altri popoli che si sono spostati con gli ebrei.
Ogni volta che si fugge non si può portare tutto, si fa la sintesi, poi si deve fare un catalogo retrospettivo, scritto in altra maniera, più moderno.
La storia della cultura ebraica è questa storia di ricostruzione, ricomposizione di un quadro. Anche il libro è scritto di nuovo, con un’altra lingua, con un’altra grammatica, in altro contesto.
Giuntina rappresenta una storia ideale dell’editoria italiana. BCM è qui perché oggi l’editoria è qui. Cento anni fa l’editoria era a Firenze, c’era Bemporad.
Oggi Giuntina è una sigla periferica, lontana dal centro e questo le dà la possibilità di essere più riflessiva, non avere l’ansia da prestazione. Non deve come altri cercare la propria ragione di esistere.
Per fare un libro ci vuole cuore. Sono 32 gli anni di Giuntina e 32 in ebraico è LEV, cuore”.

Andrèe Ruth Shammah ha ‘adottato’ il libro “Scrivere dopo per scrivere prima” di Giacoma Limentani. “Quanto la ricerca di una identità può essere interessante! – racconta –
Per molti anni lei non si era preoccupata di conoscere la cultura ebraica e suo marito, che non era ebreo, ha notato un suo disagio che dipendeva dal fatto di non ‘sapersi’. E l’ha incoraggiata a studiare, a conoscere. Giacoma ha studiato poi il Midrash e ne è diventata un’esperta. Questo libro una raccolta di saggi. Scrivere dopo per scrivere prima. Che cosa significa? Scrivere dopo Auschwitz, ma non solo.
Sono andata a sentire ieri Haim Baharier che presentava il suo Qabbalessico. L’io in ebraico è ani, mentre Io delle 10 parole è Anochì (un Io complesso). Significa Io porto la mia essenza nella scrittura. Scrivendo accetto le interpretazioni che ne verranno date. Rischiare è dare la responsabilità a chi legge. La parola detta, se non ha alcuno che ascolta, muore. In questo saggio ho letto: ‘Grande, immensa è la responsabilità di chi è chiamato all’ascolto … Se non è ascoltato, qualsiasi urlo per quanto nettamente scandito rientra in sé”.
Vale per il libro e il lettore. Per ascoltarmi qualcuno si è preso la responsabilità di farlo suo.
In questa trasmissione c’è il senso dell’ebraismo. C’è ascolto, trasmissione, interpretazione, responsabilità.
In questa grande Kermesse del libro, alcuni hanno solo voluto incontrare gli autori famosi. Ma questo è uno degli angoli in cui non si è voluto avere il ‘personaggio’ ma parlare di come poter dare un contributo come lettori e ascoltatori, responsabili, di un messaggio che vogliamo fare nostro.

Rigore e libertà sono due parole chiave. Interpretazione con rigore, cioè con attenzione al testo e come è stato interpretato dai Maestri. Scrive Giacoma: “‘l patto insito nel primi capitoli della Torà è stato posto anche per noi oggi’. Importante è trasmetterlo, sapere che è scritto per noi. Non dare responsabilità a chi dice, ma a chi ascolta.
Parlando dello scrivere dopo Auschwitz, dice che pertiene agli ebrei e agli altri, purché non sia per moda. Ci sono libri che si decide di scrivere e libri che vogliono, reclamano, di essere scritti. Questi ultimi sono i soli che possono appartenere ad Auschwitz. Oggi dovrebbero dare voce all’amore per il mondo che è andato distrutto.
Solo il timore di perdere ciò che abbiamo può farci smettere di fare male.

Scrivere dopo gli avvenimenti, ma che cosa vuol dire ‘per scrivere prima’ (prima che ri-succeda, ma anche prima dell’esperienza ebraica in quanto cultura, tradizione, lutto ma anche speranza. Oggi l’ebraismo è assurto a moda, ma deve invece guardare all’umanità degli esseri umani, ‘prevedere’ anche guardando indietro e unire in ciò che sembra dividere. Guardare avanti con una speranza che deve diventare epopea di tutti, prospettare la speranza”.

Dopo il primo gruppo di ospiti, Daniela Di Veroli ha tenuto una presentazione – molto apprezzata dal pubblico che ha chiesto approfondimenti e posto domande curiose e profonde – della Tradizione ebraica, in una sorta “visita guidata”, al ciclo della vita, alla kasherut, alle festività ebraiche, alla storia della presenza in Italia.

È intervenuto poi Walter Mariotti, vicedirettore di Panorama. Ha commentato Angeli e uomini. Tra fascinazione, psicologia e spiritualità, di Catherine Chalier, allieva di Levinàs.
Parla degli angeli nel Talmud, nello Zohar ma anche oggi, nella quotidianità.
“Mentre siamo qui oggi in alcune zone del mondo stanno accadendo cose terribili. Che senso ha interrogarsi degli angeli? L’autrice usa la parola ‘Amorizzare’. Portare amore, passione in un mondo contaminato.
Il pensiero dell’angelo non è un passatempo sterile, ma esiste un angelo per ogni nazione, in inviato, un passaggio, non una posizione irrigidita in una identità.
Il tema dell’angelo si presenzia nell’assenza. Il libro di apre con un enigma. In Genesi non si parla di angeli, che invece compaiono dopo. Chi sono queste entità? In un mondo dominato dalla visione, ci proiettano in un non luogo, l’angelo è presenza e assenza. Incontrare questo libro in questa settimana di unione, esegesi, è un segno. Interpretazione è parola del gergo teatrale, dando spazio al testo, separando una parte dall’altra.
Si potrebbe leggere la storia degli ultimi secoli come categoria del vedere. Teoria significa una serie di ‘osservatori’, al contrario di scetticismo, che è uno sguardo comunque partecipe.
Oggi c’è un paradigma scientista. Ma c’è una lunga tradizione, dagli angeli del paganesimo, a quelli dell’ebraismo, ad oggi. È un libro utile per aprirsi all’invisibile.
L’angelo è una espressione della nostra interiorità.

Stefano Levi Della Torre, intellettuale, filosofo, pittore, si è soffermato sul libro LTI, la lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer. Sposato a una donna non ebrea, per questo fu costretto al lavoro coatto dai nazisti, ma scampò il lager.
“Questo libro è un libro di un filologo ma non ha nulla di accademico, è una specie di diario di come viene trasfigurato il linguaggio da un regime totalitario.
Interessante come la soggezione della gente sia dovuta, più che al terrore, alla persuasione del linguaggio. Come per Primo Levi, per Klemperer la testimonianza è Operazione di sopravvivenza. Osservare, testimoniare, raccontare per una sopravvivenza psichica, anche se Klemperer non ha avuto l’esperienza del lager.
Il problema della lingua dunque: come diceva Schiller: ‘La lingua crea e pensa per te’.
Pensiamo di essere capaci di decidere e di pensare ma gran parte di noi è già stabilito dalla nostra lingua, che pre-forma le nostre considerazioni sul mondo.
La manipolazione di questo meccanismo è la chiave per capire la penetrazione di un regime totalitario nella nostra vita.
Anche oggi usiamo una lingua fascista con l’espressione ‘me ne frego’, ad esempio. Il regime usa come strumento il rovesciamento delle parole, e dei gesti. Il saluto romano, che all’origine era l’ostentazione di una mano disarmata, con il fascismo diventa un gesto aggressivo.
Klemperer racconta un episodio che ha suscitato in lui stupore. Nel 1938 assiste a una marcia al passo dell’oca. Intuisce l’aspetto meccanico cui il regime ha ridotto l’essere umano.
La lingua del regime totalitario fa largo uso, poi di abbreviazioni in sigle. Sono riassuntive (lavorando sulla contrazione del pensiero) e allo stesso tempo misteriose, imposte senza essere spiegate. Da qui attinge la propaganda e la pubblicità. Si possono indurre, attraverso la pubblicità, dei desideri, mentre dei comportamenti attraverso la propaganda politica.
Il libro esplicita il Meccanismo del linguaggio, le Forme indefinitamente ripetute. Ha analizzato il Mito del ventesimo secolo di Rosemberg e la contrapposizione tra il Sistema (Rappresentato dalla Repubblica di Weimar) logico, concatenato, filosofico; e il Contro sistema nazista (Organizzazione) che polemizza con la filosofia e l’illuminismo per puntare sugli spot. Alla filosofia si sostituisce la Weltanschauung. Contro il PENSIERO si va sul SENTIRE. Ciò che vuole la propaganda con il suo linguaggio, attraverso processi di convincimento pubblicitario, sommato alla tradizione religiosa. C’è la Trasfigurazione dei gesti. I Nazisti suggeriscono il fanatismo, vogliono che si percepisca l’Intensità del vissuto eroico. Per il nazismo un eroe deve essere fanatico.
Suggestione. Come avviene? C’è il racconto su una filologa collega di Klemperer, che diventa nazista. Colta, intelligente, lei dice ‘Io credo in lui’. Si crea un netto distacco tra il sapere e il pensare da una parte e il Credere dall’altra, che attiene ad un altro piano. ‘Lui ci dà una Patria’, dice la donna, ‘la dignità e la fierezza’. È una psicologia di tipo religioso.
C’è la necessità per questi regimi di far sospendere il pensiero critico, come avviene nella religione. Nel Vangelo ci sono tante cose buone ma elementi ‘rovesciabili’, come il culto del Sangue, Il Regno, utopie cristiane trasfigurate dal nazismo.
Klemperer fa un altro esempio. Per il concorso di ammissione a una scuola prestigiosa. Si domanda a un ragazzo che cosa ci sarà dopo il terzo Reich. Risposta: il Quarto Reich. Sbagliato, il ragazzo è fuori. Per il Terzo Reich non può esserci altro che l’Eternità. Infatti il
Mein Kampf è chiamato la bibbia del nazismo. E il nazismo produce un ‘odio di concorrenza’ verso gli ebrei: ‘non ci possono essere due popoli eletti, ora siamo noi ariani il popolo eletto’.

Anche con il Cristianesimo, c’è concorrenza. Hitler vuole essere il salvatore, non voleva SS cattolici che potessero preferirgli Gesù, il pesce, dal greco icthus, acrostico per Iesu cristos theus uios soter, Gesù cristo figlio di Dio, salvatore.
Anche i nazisti usano le sigle per sostituirsi a icthus”.

Dopo l’intervento di Stefano Levi Della Torre, Daniel Vogelman, fondatore della Giuntina, presenta il suo libro Le mie migliori barzellette ebraiche. Dire “racconta” è riduttivo. Le recita con consumata maestria e tra i banchi della sinagoga mai si era visto piangere dal ridere. Ma di questo potrete gustare presto un assaggio nell’area video del nostro sito.

L’ultima voce della giornata è quella di Giulio Giorello che parla di arte e del rapporto tra l’opera di Rembrandt e gli ebrei.
“Ogni cultura è in potenza ogni altra, traccia la strada perché ci si riconosca”. Lo spunto è il libro-Tesi di laurea di Anna Seghers. C’è uno sguardo disincantato sulla figura del pittore. Analisi dei quadri e del contesto. Di lui sappiamo poco. Forse calvinista, forse luterano, ma l’autrice riesce a rendere bene l’esperimento delle provincie riunite repubblicane in una Europa monarchica. Sviluppo, libera stampa, Olanda del secolo d’oro.
È significativo l’approccio di Rembrandt agli ebrei e all’ebraismo. ‘Vero’ invece che tradizionalista. Descrive gli ebrei reali, sono quelli che vivono in un paese tollerante e che vede di buon occhio l’afflusso degli ebrei ricchi che vengono dalla penisola iberica. Portano conoscenza scientifica e commerci. Ma anche gli ashkenaziti che cercano rifugio dall’orrore della Guerra dei Trent’anni.
Sono due le chiavi di comprensione, offerte dal testo. La prima è che l’arte di Rembrandt è orgogliosa della libertà olandese, borghese e ricca. Lo vediamo ne La ronda di notte.
La seconda è che si raffigura il modo in cui i non ebrei si sono rapportati agli ebrei. C’è infine il tentativo di accoglierli assimilandoli, in un cammino di integrazione culturale.

(Ester Moscati)

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Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte…”. Quando Elie Wiesel pubblicò “La Notte”, in Francia, era il 1958. Perchè qualcuno lo traducesse e lo pubblicasse in Italia ci vollero 32 anni e una piccola casa editrice di Firenze, La Giuntina. Fu Daniel Vogelmann infatti che nel 1980 decise di cominciare l’attività di editore pubblicando in Italia un testo divenuto fondamentale della letteratura mondiale. Wiesel fu l’inizio, molti altri nomi della cultura e della letteratura ebraica seguirono, tanto che La Giuntina oggi è diventata un punto di riferimento per la cultura e la letteratura ebraica in Italia e anche in Europa. E proprio La Giuntina e i suoi libri, i suoi autori,  saranno i protagonisti dell’incontro organizzato dalla Comunità ebraica di Milano nell’ambito di Bookcity, l’evento cittadino dedicato ai libri, inaugurato venerdì 15 novembre.

Domenica 18 novembre alla Sinagoga centrale di via Guastalla, insieme al rabbino Alfonso Arbib e al vicepresidente della Comunità, Daniele Cohen, intellettuali e scrittori si confronteranno con alcune opere del catalogo Giuntina – David Bidussa, Stefano Levi Della Torre, Giulio Giorello, André Ruth Shammah, Walter Mariotti, e lo stesso Daniel Vogelmann, autore recentemente di un volume dedicato all’umorismo e alle barzellette ebraiche. Fra i temi che verranno affrontati, c’è quello più generale del catalogo Giuntina preso e analizzato nel suo insieme e ci sono invece analisi e riflessioni su alcune delle opere che compongono questo catalogo, come è il caso per esempio, dei volumi di Giacoma Limentani e Anna Seghers di cui parleranno Andrè Ruth Shammah e Giulio Giorello.

Secondo David Bidussa, il ruolo svolto da Giuntina nella diffusione della letteratura e cultura ebraica in Italia è stato fondamentale. Si deve all’intuito di Vogelmann la scoperta di alcuni degli autori che oggi tutti noi leggiamo, apprezziamo e abbiamo nelle nostre biblioteche: Elie Wiesel, naturalmente, ma anche, per esempio, Irene Nemirowski, (“scoperta” da Vogelmann nel 1995 e divenuta nota al grande pubblico 10 anni dopo con le edizioni Adelphi); o Gerschom Scholem; per non parlare di tanti autori israeliani che altrimenti sarebbero sconosciuti al pubblico italiano. Il catalogo Giuntina può essere considerato lo specchio del mondo ebraico italiano, della cultura ebraica in Italia? è la domanda di fondo da cui parte David Bidussa per parlare dei caratteri e delle specificità di un catalogo come quello creato da Vogelmann con le sue scelte editoriali. Una domanda complessa, che pone a sua volta altri interrogativi, a cominciare da quella sull’identità del “lettore”, visto che “larga parte delle proposte di Giuntina, osserva Bidussa, sembrano andare al di là delle richieste del lettore medio”.

Se Bidussa riflette sul valore della proposta culturale Giuntina, sul lettore e la sua identità,  Andrè Ruth Shammah proporrà invece una riflessione sul tema della responsabilità della scrittura, attraverso l’opera e soprattutto la vicenda personale di un’autrice come Giacoma Limentani. ” ‘Scrivere dopo per scrivere prima’  della Limentani, ci dice Shammah, “approfondisce e pone il problema della responsabilità di chi scrive verso chi legge, dell’effetto che provoca ciò che si è scritto su chi legge.
Un tema lontano da questi ma che si profila di grande interesse è quello che affronterà Giulio Giorello che fra le molte proposte Giuntina ha scelto di parlare di Anna Seghers e del suo “L’ebreo e l’ebraismo nell’opera di Rembrandt”. “E’ un tema affascinante” fa notare Giorello. “Benchè il testo sia datato – è la tesi di laurea che la Seghers pubblicò ad Heidelberg del 1924 –  in questo libro emerge come Rembrandt seppe proporre un’immagine dell’ebreo alternativa rispetto a quella del tempo, lontana da immagini stereotipate o pregiudiziali.”
(Laura Brazzo)