Inseguire il sogno di Israele, tra realtà e illusioni

di David Zebuloni

L’“Alyià” dei giovani milanesi: un progetto di studio o lavoro. Che cosa attira in Israele i giovani ebrei italiani? Tante voci diverse aiutano a capirlo e a riflettere sul “nuovo sionismo”  dei millennials. Tra nostalgia, entusiasmi, prospettive di crescita

Nell’ideale collettivo degli ebrei della diaspora, Israele è casa. Una casa lontana, talvolta pericolosa da visitare, da molti idealizzata, da altri criticata, ma pur sempre una casa. Così il popolo ebraico è stato educato nei secoli, così sono stati educati anche i giovani ragazzi delle Comunità ebraiche italiane; specie quelli che hanno preso parte ai vari movimenti giovanili ebraici locali nell’arco della loro adolescenza.

Scopriamo tuttavia che ad attirare gli ebrei della generazione 2.0 nella “Terra del latte e del miele”, non è il latte e tanto meno il miele. Il sogno sionista nel tempo si è evoluto e insieme a esso si è evoluto il bisogno e l’interesse di arrivare in quella che da molti viene definita la Start-up Nation. Se prima ad attirare i giovani era il desiderio di rendere il deserto del Negev un’oasi abitabile, oggi sono le opportunità lavorative e la vita movimentata che Israele ha da offrire.
Ci domandiamo dunque se il sionismo esista ancora nel 2020 e se esso basti a soddisfare i bisogni di chi, terminato il liceo, arriva in Israele in cerca di un futuro migliore. La doppia faccia della medaglia pone il giovane ebreo italiano a porsi delle domande che il nonno pioniere forse non si sarebbe mai posto. Rinunciare alla vita comunitaria per tuffarsi in una realtà più individualista? Lasciare il nucleo famigliare per riscoprire la propria indipendenza? Abbracciare una nuova lingua rinunciando così alla propria di origine? E l’ultima, la più difficile, la vita in Israele è un sogno o un’illusione?

Per aiutarmi a rispondere a queste domande, mi sono rivolto ai miei ex compagni di classe del liceo. Ragazzi e ragazze che come me, cinque anni fa, terminato l’esame di maturità alla Scuola ebraica, si sono ritrovati a dover decidere se rimanere a Milano o se compiere il “grande passo” e trasferirsi in Israele.
“Innanzitutto è importante capire che non esiste un solo modello israeliano”, spiega Davide Boccia, che dopo aver studiato un anno in Yeshiva a Gerusalemme e dopo aver conseguito la prima laurea al Technion di Haifa, oggi sta completando gli studi di medicina all’Università di Tel Aviv. “In Israele coesistono diverse realtà, così che ognuno può sentirsi a casa. C’è chi cerca un ambiente un po’ più religioso, chi invece cerca un ambiente prettamente laico. In Israele ognuno trova il suo spazio. Io ho vissuto quello più ortodosso di Gerusalemme e quello più liberale di Tel Aviv e mi sono sempre sentito a casa”.

Diversamente la pensa Rochelle Bendaud, che dopo aver fatto un anno di Mechina in Israele, ovvero un anno di preparazione alla prima laurea all’Università di Bar Ilan, ha deciso di proseguire i suoi studi inizialmente a Milano e poi a Londra. “Israele è casa e lo sarà sempre, su questo non c’è dubbio, ma a riportarmi in Europa è stato proprio un motivo culturale”, racconta Rochelle. “In quel momento della mia vita sentivo il bisogno di essere circondata da un ambiente europeo e vivere una realtà, un’atmosfera più simile a quella che già conoscevo, che mi fosse più famigliare”.
Nonostante esista una bizzarra corrente di pensiero che sostiene che italiani e israeliani condividono lo stesso temperamento, il divario culturale e civile che divide i due popoli si rivela essere abissale. “La mentalità israeliana è molto diversa da quella europea”, conferma Rebecca Saban, che dopo aver vissuto un anno di esperienze di volontariato in Israele con il movimento giovanile Bnei Akiva e dopo aver concluso un B. A. alla Tel Aviv University in studi asiatici e cinese, in lingua ebraica, e letteratura americana, in lingua inglese, ha deciso di tornare a Milano per provare un’esperienza lavorativa. Terminato il periodo a Milano è partita per qualche mese in Cina e infine è tornata a lavorare a Tel Aviv. “In Israele devi imparare a rispondere, a reagire, ad insistere per ottenere ciò che vuoi. Per ogni tre no ricevi un solo sì. A parte questo, la vita sociale qui è molto stimolante, le amicizie sono sempre a portata di mano e sento di riuscire a coltivare meglio i legami con le persone a cui tengo”.
Rebecca non è l’unica ad essere tornata a Milano una volta terminati gli studi universitari. Dan Terracini, dopo essersi laureato al Technion di Haifa, ha fatto lo stesso. “Israele è un sogno, mi ha cambiato la vita, ma non è un posto adatto a tutti”, puntualizza Dan. “Io sono abbastanza convinto di voler continuare lì la mia vita, ma ho deciso di prendere una piccola deviazione in questo momento per cambiare un po’ ambiente. Sono fatto così, ho bisogno di cambiare spesso, di provare cose nuove. E la Milano che ho ritrovato è diversa perché sono diverso io, la vedo con altri occhi”. Anche Alexandra Kraslavski, dopo aver concluso il B. A. all’IDC Interdisciplinary Center Herzliya in lingua inglese, ha dovuto accantonare per un certo periodo il desiderio di vivere in Israele per poter conseguire la seconda laurea in psicologia clinica a Milano. “Purtroppo per dover continuare gli studi in Israele dovevo avere un ebraico perfetto”, racconta Alexandra, “ed io, che fino alla fine della prima laurea ho comunicato in inglese, francese e russo, mi sono ritrovata a dover decidere tra gli studi accademici o la vita in Israele. Guidata dalle mie ambizioni professionali, ho deciso di tornare a Milano, ma Israele rimane per me quel posto in cui mille destini si incontrano, quel posto che mi ha permesso di ampliare moltissimo i miei orizzonti”.
Capiamo dunque che il conflitto interiore che vive il giovane ebreo italiano in Israele è molto più profondo di quanto possa apparire, in quanto tocca diverse sfere emotive e identitarie. Ce lo spiega Naomi Avrilingi, assistente sociale di professione e studentessa presso la Hebrew University a Gerusalemme. “Io sono arrivata in Israele con il desiderio di fare un cambiamento nella mia vita e con la volontà di investire le mie energie in un posto che offrisse delle opportunità concrete ai giovani. Con il tempo però ho capito di aver idealizzato troppo Israele. La verità è che la vita qui è piena di difficoltà e nessuno te lo dice prima di trasferirti, nessuno ti prepara a ciò a cui vai incontro. Io sono felice di essere qui e di aver vinto le mie sfide, ma ad oggi credo di poter affermare che ti puoi sentire a casa solo quando sei circondato dalle persone che ami, e il mio cuore sarà sempre diviso tra Italia e Israele”.

Le parole di Naomi fanno riflettere sul ruolo che Milano ricopre nella vita di chi ci ha abitato tanto a lungo. “Casa è sempre casa, e io la considero Milano”, afferma a questo proposito Jonathan Misrachi, che dopo aver vissuto un anno di esperienze di volontariato in Israele con il movimento giovanile Hashomer Hatzair, ha deciso di tornare in Italia per intraprendere gli studi accademici. “Non è stata una decisione semplice, ma ho scelto di tornare a Milano per esplorare meglio la mia città e uscire dalla comfort zone di quel posto in cui sono nato e cresciuto. Da Israele però non mi stacco, la considero sempre la mia seconda casa e ci torno ogni volta che ne ho l’occasione”.
Su una cosa non c’è dubbio: Israele riesce a lasciare un’impronta nella vita di chi ci abita, di chi ci ha abitato, di chi ci ha vissuto un’esperienza, di chi ha fatto un viaggio, una vacanza, ma anche di chi ci è passato solamente per fare scalo tra un continente e l’altro. Israele lascia il segno per la sua capacità di riconnettere la persona alle sue radici, alla sua storia. Ma, come anticipato, nell’era degli smartphone e dei voli low cost, questo non basta. Israele riesce infatti ad offrire ai giovani anche delle opportunità uniche anche da un punto di vista accademico e lavorativo.
“Terminato il master a Londra ho cominciato a cercare dei gruppi di ricerca per poter proseguire i miei studi”, racconta Jasmine Blanga. “Dopo diversi tentativi ho scoperto la possibilità di fare un dottorato al Weizmann Institute of Science, uno degli istituti migliori al mondo nel ramo della ricerca che interessava a me. Quando ho visitato il luogo, ho capito immediatamente quanto fosse all’avanguardia rispetto agli altri posti in cui ero stata precedentemente e ho deciso di venirci a studiare”. I fattori dunque sono molti, identitari e sociali, ma spesso sono proprio queste le opportunità a stimolare maggiormente i giovani. “La vita qui è un esperimento continuo”, spiega Michael Tcherniack che, dopo essersi laureato al Technion di Haifa, ha cominciato a lavorare per una società di cyber security a Tel Aviv. “Oltre al desiderio di mettersi sempre alla prova e alla necessità di sentirsi parte di un qualcosa di più grande, di un popolo appunto, esiste anche un interesse economico. Ciò che si guadagna qua non è comparabile a ciò che si guadagna in Italia. Anche se, a onor del vero, la vita qui è molto più cara”. Simile l’opinione di Gabriel Katri, che dopo una prima laurea in economia alla Bar Ilan University e un master all’IDC Interdisciplinary Center Herzliya, oggi lavora presso una società di fintech. “Essere italiano in Israele ti dà degli strumenti in più rispetto agli altri”, confessa Gabriel. “Dove lavoro io per esempio cercano sempre ragazzi dalla prospettiva più ampia, più internazionale. Di Israele infatti mi ha conquistato il mix di lingue e culture, ma soprattutto l’opportunità che ti dà di cambiare, di intraprendere nuove strade, di conoscere nuove persone”.
Per capire se la percezione fosse diversa al di fuori della mia classe, mi sono rivolto anche a tre ragazze che hanno finito il liceo qualche anno prima di noi. “Finire la scuola a diciannove anni e sapere esattamente che strada intraprendere è molto difficile, quasi impossibile. Nonostante ciò, io sapevo che in Israele avrei trovato le risposte che cercavo e ho deciso di buttarmi in questa avventura. Oggi posso dire che Israele mi ha offerto la possibilità di vivere in libertà e indipendenza”, dice Alessandra Meghnagi. “Io sono arrivata in Israele perché volevo diventare medico e perché credevo profondamente che il sistema sanitario israeliano avesse tanto da offrire. Ovviamente nel tempo mi sono resa conto che non tutto era rose e fiori come pensavo, esistono grandi problemi alla base della società israeliana, ma nonostante ciò posso dirmi contenta di essere qui oggi”, aggiunge Sharon Soued. “Durante i miei anni in Israele ho capito quanto il mio percorso fosse influenzato dal posto da cui vengo. Il mio punto di forza rimangono le mie origini: non solo l’Italia, ma anche la Comunità in cui sono cresciuta, che è un motivo per me di grande orgoglio”, conclude Terry Levy.
Se definire dunque Israele un sogno o un’illusione pare pressappoco impossibile. Ciò che risulta evidente tuttavia, è la metamorfosi che ha subito negli ultimi decenni il movimento sionista. Un movimento spesso controverso, dalle caratteristiche sicuramente diverse da quelle originali, ma che rimane comunque un punto fermo nella storia dell’ebraismo italiano.