Diaspora e Israele: così vicini, così (oggi) irraggiungibili

Taccuino

di Paolo Salom

[voci dal lontano occidente]  Ahavat Israel e solidarietà, nonostante il virus

Riuscireste a immaginare un mondo – il nostro mondo – senza Israele? Quel che appare scontato non è detto che lo sia per sempre. L’epidemia che ha trasformato le relazioni domestiche e non solo nello spazio di poche settimane ci ha dato l’occasione di una riflessione basata su dati di fatto. Negli Stati Uniti, casa della più grande comunità ebraica all’infuori di Israele, è noto che le posizioni sul piano di pace presentato dall’amministrazione Trump sono per lo più sfavorevoli. Uno tra i concorrenti alla nomination tra i democratici, Bernie Sanders (ormai escluso dalla corsa), in passato ha più volte dichiarato di sentirsi “orgogliosamente ebreo”, eppure si è circondato delle figure politiche più ostili a Israele: da Rashida Tlaib a Ilhan Omar, incarnazione del moderno antisemitismo: l’antisionismo. Eppure la popolarità di Sanders tra gli ebrei americani è sempre stata alta, nonostante le sue promesse (elettorali) di sospendere gli aiuti economici a Gerusalemme se non si ritirerà da Giudea e Samaria per “assicurare i giusti diritti umani ai palestinesi”. Ora: nemmeno una parola sul terrorismo che ha costretto Israele a prendere misure necessarie per difendere i propri cittadini?
Sappiamo bene cosa succederebbe in caso di ritiro unilaterale (o concordato: non fa differenza) da queste due regioni che sono il cuore della millenaria storia ebraica. Lo sappiamo perché è già accaduto: a Gaza. Dunque una siffatta politica rappresenterebbe un probabile suicidio dell’impresa sionistica, con l’impossibilità di arginare attacchi contro Tel Aviv, l’aeroporto Ben Gurion e la necessità di evacuare tutte le comunità che sono prosperate oltre la linea verde. Provate a immaginare che cosa vorrebbe dire questo non solo per gli israeliani (che sono nostri fratelli e sorelle) ma per noi tutti. Fate uno sforzo: sono sicuro che tutti a prescindere dalla posizione politica, in questi giorni ci avete fatto un pensiero. Comincio io, raccontandovi un episodio, banale ma esemplare: mio figlio Matteo (oleh ormai non più hadash) e sua moglie Tara sarebbero dovuti venire in Italia per trascorrere Pesach con la famiglia nella Golah (noi). Il coronavirus ha cancellato questa possibilità, di fatto tracciando un solco incolmabile. Loro lì, noi qui. Nessuna possibilità di incontro. Certo, esistono tutti gli strumenti per parlarsi e vedersi. E, soprattutto, Israele è ancora là e ci sarà anche al termine di questa crisi sanitaria. Ma questa lontananza forzata in un momento così importante del nostro calendario, la solennità che ricorda la fuga dall’Egitto, la ritrovata libertà nella propria Patria storica, spezza il cuore. E obbliga a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni, sulla necessità di non dare tutto per scontato. Molti di noi, in totale buona fede, si sforzano di immedesimarsi nelle “sofferenze altrui”. Per carità, la mia non è una critica a questa disposizione d’animo. Al contrario: vorrei invitare tutti a considerare per un istante cosa sarebbe di noi se venisse un giorno a mancare la solidarietà, l’Ahavat Israel. Se un giorno le azioni di pochi portassero a un risultato paradossale ma reale: la scomparsa di Israele come Stato ebraico. Io dico che il futuro non si può prevedere. Ma nel presente si può e si deve agire per il meglio del nostro (piccolo) popolo: nel segno della solidarietà. Right or wrong, my Country.