Elyasaf Peretz, israeliano che ha perso i fratelli nelle guerre di Israele

Yom haZikaron. Intervista a Elyasaf Peretz: “Noi siamo gli artefici dei miracoli che ci accadono”

di David Zebuloni, da Tel Aviv
“Condividere il dolore non è facile. Il lutto dovrebbe essere vissuto in silenzio, da soli. A volte sono felice di avere alcuni ricordi che sono solo miei, che non appartengono a nessun altro, ma sapere che il loro ricordo vive anche nei cuori di altre persone è sicuramente una piccola consolazione”. Elyasaf Peretz pronuncia queste parole serenamente. Ricorda i fratelli caduti in guerra con nostalgia, ma senza rabbia. Senza odio. Senza tristezza. “Credo che se mi invitassero a parlare di loro ad una cerimonia, per quanto triste essa possa essere, farei ridere tutta la platea”, confessa. “Insieme ci divertivamo da matti, ci facevamo i dispetti, scherzavamo tutto il tempo. Eravamo fratelli, sai. Sono questi i ricordi che ho di loro”.

La prima volta che la società israeliana incontra la famiglia Peretz è nel 1998, quando il primogenito Uriel viene ucciso durante un combattimento in Libano. Il padre Eliezer non riesce a sopportare il dolore della perdita e viene a mancare a causa di un infarto poco tempo dopo, all’età di 56 anni. Rimangono la madre Miriam e cinque figli. Il dramma della famiglia Peretz culmina nel 2010, quando il secondogenito Eliraz viene ucciso durante la prima guerra con Gaza lasciando così, oltre che la madre e i fratelli, anche la moglie e quattro figli.

Da allora nulla è stato più lo stesso. Miriam ha deciso di dedicare la propria vita al ricordo dei figli scomparsi. Comincia così a girare il paese in lungo e in largo, raccontando di loro, del loro sacrificio, ma parlando anche di leadership, di coraggio, di forza, di vita. Di amore per la vita. “Il coraggio non si misura solo con la morte, ma anche con la vita”, è una delle sue frasi più celebri. Seguendo le orme della madre, anche Elyasaf decide dare maggior significato alla sua vita, di non sprecare la straordinaria opportunità di trasmettere agli altri ciò che la perdita dei fratelli gli ha insegnato.

“Molto spesso mi chiedono quale sia la connessione tra me e loro. Cosa mi accomuna ai miei fratelli. E io rispondo che molto probabilmente io e loro abbiamo goduto degli stessi panorami, attraversato gli stessi sentieri, sudato sulle stesse rocce. Quando ero un soldato all’esercito, l’unica cosa che mi consolava era la consapevolezza che prima di me c’erano stati loro. Che io proseguivo ciò che loro avevano cominciato. E osservando l’alba sorgere, dopo aver marciato tutta la notte, provavo un’emozione fortissima. Quell’alba era la stessa che avevano visto anche loro, ne ero certo”. Elyasaf racconta e sorride, non smette di sorridere per un attimo. Gli domando cosa si celi dietro quel sorriso, quanto esso sia realmente autentico. Si può d’altronde accettare la morte con il sorriso? È questo forse possibile? “La tristezza e la felicità coesistono, non si annullano a vicenda”, spiega Elyasaf. “I miei fratelli mi mancano moltissimo. A volte guardo i miei figli e non mi capacito del fatto che non potranno mai incontrare, conoscere, abbracciare i loro zii. Ma io sento che Uriel ed Eliraz non mi hanno mai abbandonato. Che sono sempre con me. Che mi accompagnano lungo tutto il cammino. E sono felice di avere la possibilità di poter raccontare la loro storia, di essere rimasto per poter tramandare tutto ciò che io ho imparato da loro”.

Saper dire grazie

Il ruolo della famiglia Peretz è ben preciso all’interno della società israeliana: dare speranza a chi l’ha persa. Si tratta senza dubbio di un paradosso. Proprio loro, che più di chiunque altro necessiterebbero di essere consolati, sostenuti, compianti, fungono in realtà da motore di speranza a chi non riesce a vedere la luce in fondo al tunnel. Mamma Miriam e Elyasaf girano di scuola in scuola, attraversando ogni base militare, arrivando fino al parlamento, per parlare di ciò che più sta a loro a cuore. “Vivete la vita come un miracolo, dite grazie per ciò che avete”, insegnano a chi ascolta.

“Non date la vita per scontato”, mi esorta Elyasaf. “Ringraziate di potervi alzare la mattina, di poter andare a scuola, di poter assaporare i cibi che vi piacciono. Non date mai nulla per scontato”. E la felicità? Qual è la definizione di felicità? “Saper vivere il presente, ringraziare per ciò che si ha al momento, non per ciò che si ha perduto o per ciò che si otterrà in futuro. Io ringrazio per ciò che ho oggi. Per mia moglie, per i miei figli. Come potrei non essere felice? Mi basta guardare ciò che ho. E non pensare sempre a ciò che non ho”. E piangere? È permesso piangere? “Ci sono moltissimi momenti in cui piangiamo. Momenti in cui la famiglia sembra dividersi in mille pezzi, in cui tutto sembra perduto per sempre. Non siamo forti come sembriamo, mia mamma va a dormire ogni notte con le lacrime agli occhi. Ma poi ci rialziamo sempre, ricominciamo a sorridere. Non permettiamo alla tristezza di prendere il sopravvento. Con un po’ di fede si va avanti, sempre avanti, nonostante tutto.”

Il rapporto con la fede

“C’erano notti in cui, prima di andare a dormire, supplicavo Dio di non farmi più aprir gli occhi al mattino. Non volevo rialzarmi. Non volevo vivere. Provavo un dolore che non riuscivo ad esprimere e non riuscivo ad affrontare. Dopo due mesi ho capito che i terroristi avevano ucciso i miei fratelli, ma che presto avrebbero ucciso anche me. Non fisicamente, ma spiritualmente. Dovevo fare qualcosa. Dovevo vivere. E non una vita qualunque, volevo vivere una vita di significato. Vivere al cento per cento. Senza farmi sconti”.

Il rapporto con la fede muta sempre in seguito ad una grande perdita o ad un forte trauma. A volte si rafforza, a volte si infievolisce. Elyasaf per esempio ha rincontrato Dio in Nuova Zelanda, durante un viaggio che aveva deciso di intraprendere per ritrovare se stesso e che ha cambiato per sempre la sua vita. “Ero in mezzo al nulla, a ottanta chilometri dalla città più vicina. Intorno a me solo la natura. Accanto a me una Jeep con un conducente che aveva il compito di accompagnarmi in giro per il paese. Ero sceso un attimo dall’auto per stiracchiarmi e godermi il panorama, quando il conducente mi ha fatto un cenno con la mano e se n’è andato lasciandomi solo. Ero senza telefono, tutti i miei oggetti personali erano rimasti sulla Jeep. Ero rimasto solo, senza nulla. Non potevo crederci, non mi stava realmente succedendo. Ho cominciato a urlare come un pazzo, ad invocare Dio, a chiedergli aiuto, ma Dio ha taciuto. D’un tratto ho capito una cosa straordinaria. D’un tratto ho capito che a volte il miracolo più grande che Dio possa fare, è permetterti di capire che nessun miracolo riuscirà a salvarti. Quando capisci che nessun miracolo può salvarti, smetti di piangere e cominci a marciare. Diventi tu artefice del tuo miracolo. Da passivo diventi attivo. Ci sono persone che tutta la vita aspettano un miracolo. Io ho smesso di aspettare e io mio legame con Dio non è mai stato più forte. La fede non è razionale, la fede è quella voce interiore che ti dice di non farti condurre dalla vita, ma che ti invita a condurla tu stesso.”

In ricordo dei fratelli

In Israele il compito di ricordare i soldati caduti in guerra è sempre spettato ai genitori. Erano i genitori a custodire il ricordo dei loro sorrisi, delle loro passioni, dei loro sogni irrealizzati. La realtà di oggi, tuttavia, è ben diversa. L’età media dei genitori in lutto è pari a 75 e sono i fratelli ad avere raccolto il testimone. Basta pensare ai soldati caduti nelle guerre del ’67 o del ’73, per capire l’importanza del loro ruolo. Sono loro infatti i nuovi custodi della memoria. “Quando i miei fratelli sono morti in guerra, non ho perso solo loro, ma ho perso anche i miei genitori. Come ci si relaziona ad un genitore che ha perso il figlio? È estremamente difficile. Noi dobbiamo essere forti per loro, ma chi è forte per noi? Ho deciso così di fondare l’associazione I nostri fratelli per dar voce a quei fratelli che hanno dovuto fare i conti con il lutto da soli. Senza l’aiuto di nessuno. Giriamo il paese e raccontiamo la loro storia, la storia dei nostri fratelli perduti, in modo tale che il loro ricordo viva anche nei cuori degli altri. E non solo nei nostri. Nel primo anno abbiamo avuto 150 incontri, ai quali ha partecipato anche il Capo del Governo, Benjamin Netanyahu, raccontando la storia del fratello Yoni, ucciso nell’Operazione Entebbe. Abbiamo un fratello che ha 89 anni, il più anziano tra noi, che racconta la storia del fratello caduto nella Guerra d’Indipendenza. Quest’anno abbiamo avuto 550 incontri, in Israele e fuori da Israele. Ci ospitano nelle Comunità ebraiche di tutto il mondo”. Elyasaf sorride di nuovo. “Questi incontri danno forza a chi racconta e chi ascolta. Ci ricordano che il dolore non si può cancellare, ma che nemmeno la speranza ci verrà mai sottratta. La vita continua, noi ne siamo la prova.”