Sono un’ottimista, in ogni sconfitta c’è una rinascita

Personaggi e Storie

di Fiona Diwan

5 agosto 2009 – Roma

Uno scricciolo con la forza di un titano. E la grandezza di un monumento. Alla scienza, ovviamente.
Ma anche alla capacità di combattere, all’ottimismo, alla fiducia nella vita e nei suoi doni sorprendenti. Attenta a coltivare sempre la virtù della speranza, l’hatiqvà, così tipicamente ebraica. Sarà anche banale a dirsi ma quando si ha davanti Rita Levi Montalcini, con quello sguardo verde acqua che ti osserva dall’alto dei suoi 100 anni (è nata il 22 aprile 1909), il senso di avere di fronte un essere umano fuori dal comune azzera tutte le altre considerazioni. Non solo perché è un premio Nobel (lo ricevette nel 1986 per la Medicina), non soltanto perché è senatore a vita (Ciampi firmò nel 2001 la sua nomina). Forse è per questa sua fragilità di vetro che si mescola alla tranquillità delle parole, alla lucidità intatta dello sguardo e del pensiero. Mi riceve all’Ebri, appena fuori Roma: l’European Brain Reaserch Institute è la sua Fondazione senza scopi di lucro, un istituto di ricerca scientifica sulle malattie neurologiche e neurodegenerative. Davanti a tanta energia mi chiedo quale sia il segreto dell’arte di invecchiare bene, la ricetta di questa corretta manutenzione dello spirito, della fame di nuovo e della curiosità che sembrano non abbandonarla nemmeno da centenaria, immemore di tristezze, acciacchi, lutti e delusioni.

Lei dice di essere un’inguaribile ottimista, di nutrire una grande fiducia nel futuro. Da dove attinge questo sguardo sorridente sul mondo anche in tempi di crisi come questi?
Io sono sempre stata un’ottimista, anche durante il periodo delle Leggi razziali del 1938, un periodo in cui l’Italia precipitò nell’infamia. Come ci riuscii? Disinteressandomi della mia persona e di quello che poteva succedermi. Essere pessimisti vuol dire dichiararsi sconfitti in partenza. La nostra vita sarà tanto più ricca quanto più sapremo vedere in ogni esperienza, anche se apparentemente negativa, il lato positivo che a lungo andare può prevalere su ciò che nel presente è causa di angoscia. Si deve spingere lo sguardo al di là dell’immediato presente e non fissare l’attenzione su noi stessi. Soltanto così possiamo sperare di conservare uno sguardo fiducioso sul mondo, andare avanti, non farci schiacciare dal dolore e dalla tristezza che sono inevitabili. In un certo senso, dimenticandoci di noi stessi. C’è sempre qualcosa che ci salva e in ogni catastrofe c’è la possibilità di rovesciamento. Durante la persecuzione antiebraica in Italia, noi ebrei non potevamo più fare niente, né studiare, né insegnare, né lavorare; fui costretta a costruirmi un laboratorio in camera da letto, sia a Torino che ad Asti. Da lì ho cominciato le ricerche che poi mi portarono al Nobel e alla scoperta del NGF, il Nerve Growth Factor. Ed è stata la mia fortuna.

È vero che lei non nutre rancore per i fascisti? Cosa ricorda del periodo della guerra?
Certo che ho rancore! Per lo sterminio della mia gente, per la Germania distrutta, per l’Italia fatta a pezzi, per le persecuzioni… Non ho astio personale, quello no. Di quel periodo ricordo la fuga da Torino, dopo l’8 Settembre: sul treno che ci portava a Firenze, verso sud, c’era un graduato, un fascista. Fummo molto cauti, cercavamo di eluderlo, di non farci notare e quando arrivammo alla pensione mi inventai un nome falso, Lupani, ma credo che i proprietari avessero capito chi eravamo.

C’è qualche cosa nel suo essere ebrea che l’ha favorita nell’approccio alla vita, al lavoro, alla scienza?

Nella ricerca non è né il grado di intelligenza né la capacità di attuare e condurre un compito intrapreso ad essere un fattore essenziale per il successo, per la riuscita: questo vale anche per l’appartenenza a una o altra religione. Nel mio caso, avendo avuto una buona base scientifica, è stato l’intuito che mi ha aiutato a valorizzarla.

In che cosa consiste il suo sentirsi ebrea? Retaggio culturale, forma mentis, tradizioni, valore dello studio?
Appartengo all’ebraismo e ne vado fiera, ma sono laica al cento per cento. Fin da bambini mio padre ripeteva a noi figli che dovevamo essere soprattutto dei liberi pensatori e noi lo siamo diventati prima ancora di sapere che cosa questo significasse.

E il suo rapporto con Israele?
Sono una grande amica del presidente Shimon Peres. Spero che la politica di apertura di Obama all’Iran porti buoni frutti. Se si dovessero usare armi di distruzione di massa non scomparirebbe solo Israele ma molto di più. Per questo non penso possibile la sua distruzione.

Qual è il messaggio che vuole lasciare alle future generazioni?
Il messaggio che lascio ai giovani, – e per me conta più di quello scientifico -, è di affrontare la vita con totale disinteresse per se stessi e con la massima attenzione per il mondo intorno a noi, sia quello inanimato che quello dei viventi. Io dico ai ragazzi di oggi: non pensate a voi stessi, pensate agli altri. Pensate al futuro che vi aspetta, a quello che potete fare, e non abbiate paura di nulla. Non bisogna temere le difficoltà: io ne ho avute tantissime e ho voluto attraversarle con totale indifferenza per la mia persona, mi sono scrollata i problemi di dosso come fa l’anatra con le gocce d’’acqua sul piumaggio.

Lei sta scrivendo un libro sulle differenze tra i due cervelli dell’essere umano. Quali sono?

Il nostro cervello è formato da due emisferi. L’emisfero sinistro eccelle in funzioni che richiedono attitudini matematiche, simboliche e analitiche. La lateralizzazione dei centri della parola vocalizzata e scritta si manifesta nell’’emisfero dominante che, nella grande maggioranza dei casi, è proprio il sinistro. L’emisfero destro è più voluminoso ha la capacità di processare l’’imput sensoriale visivo, olfattivo, acustico…, senza scinderlo nelle sue componenti. Ha capacità olistiche, sa cogliere l’insieme, il tutto, e utilizza una tattica più rapida nel processare l’informazione sensoriale.
Il nostro cervello quindi ha una parte più arcaica, localizzata nell’ippocampo, rimasta identica a quella che avevamo tre milioni di anni fa: è un cervello piccolo ma con una forza incredibile perché governa le nostre emozioni e ci aiuta nel processo di adattamento all’’ambiente. Spesso il nostro comportamento è governato da questa parte, dall’’emotività del cervello arcaico destro, e questo ha portato a grandi tragedie storiche, guerre, razzismi, totalitarismi, la Shoah. Poi c’’è l’’altra parte, quella cognitiva: il cervello cognitivo sinistro è più recente e giovane, nasce con la parola e il linguaggio 150 mila anni fa, è situato nella neo-corteccia e si è sviluppato con l’’evoluzione dell’’homo sapiens, grazie alla scienza e alla cultura. Inutile dire che se seguiamo la parte arcaica del nostro cervello, quella più maligna, questo non porterà del bene all’’umanità.

Perché le donne di genio sono state così poche nella Storia?
Storicamente, l’’appartenenza al genere femminile è sempre stata considerata un impedimento a qualsiasi tipo di sviluppo intellettuale. L’’apporto femminile non è stato mai riconosciuto, semmai veniva attribuito ai padri, ai fratelli o ai mariti, maschi che ne usurpavano il talento. Geneticamente uomo e donna sono identici, che si tratti di scienza, letteratura o arte. La differenza sta nel fatto che lo sviluppo della donna è stato volontariamente bloccato. Nel passato la cultura era accessibile solo a una piccola elite femminile: in genere le appartenenti alle classi sociali più agiate e illuminate, e alle donne ebree, poiché tra noi ebrei la cultura era così amata, aveva un tale valore, che superava le differenze di sesso.