Rav David Lau a Milano: «Solo nell’unità troveremo una strada comune». La cover di Bet Magazine di aprile

di Fiona Diwan e Ester Moscati

Le questioni sul tappeto dell’attualità israeliana oggi, i rapporti tra mondo religioso e mondo secolare, le radici, l’identità ebraica, l’educazione nelle scuole… Parla Rav David Lau, tra le massime autorità religiose d’Israele e dell’ebraismo mondiale, 39° discendente di una grande dinastia ashkenazita e figlio di una leggenda vivente, Rav Israel Lau, sopravvissuto alla Shoah

Un sorriso aperto e gentile, un eloquio pieno di brio, il Rabbino capo Ashkenazita d’Israele rav David Lau, ha fama di sapersi muovere con disinvoltura in contesti sia secolari e chilonì, sia in contesti dalle sfumature ortododosso-religiose tra le più disparate. Figlio di una figura carismatica, una leggenda vivente, quella di Rav Israel Lau sopravvissuto alla Shoah – che lo ha preceduto nella carica di Rabbino capo di Israele -, discendente di una illustre e secolare dinastia di studiosi (ne è il 39° rabbino capo), capace di creare consenso poiché non appartenente a una chassidut specifica, quella di Rav David Lau è una leadership dinastica ma reale, che riesce a mettere d’accordo quasi tutti e ben ancorata nel tessuto sociale israeliano.

Una figura a suo modo conciliante e per nulla avulsa dalla realtà sociale che lo circonda. Basti un episodio. Con un atto di coraggio e col rischio di inimicarsi l’intero mondo haredì che non ne voleva sapere di chiudersi in casa, ai tempi del lockdown e del Covid 19 Rav David Lau si cimentò con una impresa impossibile: chiese in modo perentorio al mondo religioso, in diretta televisiva, di non più riunirsi in gruppo, di pregare a casa propria e non recarsi più in templi, sinagoghe e case di studio, onde non far esplodere i contagi. Solo il suo appello, finalmente, convinse i più recidivi a starsene tra le quattro mura domestiche, riuscendo nello scopo di svuotare le strade dalle folle di haredim che vi si riversavano per feste o funerali. Ospite oggi della nostra comunità, il Rabbino capo ha visitato i luoghi nevralgici della CEM: Scuola della Comunità, Tempio Centrale, Noam, Scuola Yoseph Tehillot e Merkos … Lo abbiamo incontrato.

Israele sta vivendo un momento di grave lacerazione interna, il Paese sembra spaccato in due, in balia quasi di un odio gratuito, l’incubo della Sinat Chinam, diviso tra chi reclama una Medinat Yehudit e chi una Medinat Demokratit. Una lacerazione profonda, che indebolisce Israele.

Sono felice della domanda perché mi permette di chiarire una cosa molto importante. È sbagliato parlare di odio. Essere in polemica, anche in modo aspro, non significa odiare. Bisogna abolire la parola odio, è essa stessa una parola detestabile, pericolosa, da eliminare assolutamente. Inoltre: nella Dichiarazione di Indipendenza d’Israele per ben 17 volte viene usata la parola Yehudit (Ebraica, nel senso di Nazione ebraica) mentre non è mai usata la parola Demokratit. Questo non vuol dire ovviamente che Israele non debba essere uno Stato democratico, ma che la questione centrale è che sia uno Stato ebraico. È fondamentale per l’oggi così come era fondamentale per i padri fondatori. Io sono convinto che la democrazia sia un elemento clou, un elemento ebraico essenziale; credo che alla base della democrazia ci sia un principio talmudico, quello per il quale si deve seguire la regola della maggioranza. D’altra parte non credo che la discussione attuale sia tra Medinat Yehudit e Medinat Demokratit. Non credo che discutere su quanti rappresentanti politici debbano essere nella Commissione che nomina i giudici sia un problema né di democrazia né di ebraismo. Non è nessuna delle due cose: è una discussione politica ed è un problema di opinioni diverse, dal punto di vista politico.

Rav Lau, lei è solito muoversi anche in contesti laici: è stato Rabbino capo di città come Modiin e Shoaham; suo fratello è Rabbino capo di Nethanya, suo padre, rav Israel Lau, è Rabbino onorario di Tel Aviv, città “laiche”. Siete figure immerse nella realtà d’Israele. Ci sono state 500.000 persone in piazza nell’ultimo mese; che risposta può dare a tutto questo?

Oggi nella Tefillah ho ripetuto una frase: “che noi si possa meritare di vedere i pregi del nostro prossimo e non i suoi difetti”. Vedere i meriti dell’altro è il presupposto del dialogo perché è fondamentale che ci si parli. Sì, parlarsi. Ma il problema è riuscire a farlo. È molto importante il tentativo che in questo senso sta facendo il Presidente israeliano Isaac Herzog e sono convinto che nel momento in cui questo tentativo andrà in porto si arriverà a una situazione in cui sarà possibile parlare e arrivare all’unità.

Crede che il tentativo avrà successo?
Non rientra nel mio ruolo parlare di politica. Ho parlato più volte con il Presidente Herzog e sono convinto che sia un impegno serio e personalmente fornisco tutto il mio sostegno e le mie preghiere affinché questo riesca. Israele è un esempio di democrazia, il fatto stesso che si possa manifestare in piazza lo dimostra. Ci sono state le elezioni, ci sono opinioni diverse, ma sono convinto che si possa trovare la strada per parlarsi.

Tuttavia, ci sono proposte di legge che sembrano mettere in discussione anche il diritto di manifestare…
C’è chi ne ha parlato, ma nessuno ha formalizzato queste proposte di legge. C’è chi ha detto che bisognerebbe vietare di bloccare le strade, ma non è una proposta formale e riguarda un periodo successivo a questa crisi.

Israele appare in questo momento indebolita: oltre alla crisi interna, l’Arabia Saudita ha stretto, sotto l’egida della Cina, un accordo con l’Iran che sembrava impossibile fino a ieri. Come ritrovare l’unità, l’Ahdut, necessaria ad affrontare questo momento? Come si fa a tornare all’unione spirituale del popolo ebraico?
Io viaggio molto per Israele e incontro persone di gruppi diversi, haredìm e no, chilonim, datiim, laici e religiosi, in ambiti molto differenti. Io penso che la percezione che se ne ha dall’estero sia scoretta e che, viste da fuori, la frattura e la divisione interne siano esagerate. Non vedo, nei luoghi che visito abitualmente, questa divisione. Fra poche settimane leggeremo l’Haggadah di Pesach e diremo: “In ogni generazione vogliono distruggerci ma Hakadosh Baruchu ci salva”. Questo lo leggeremo tutti ed è questo che ci unisce, ci lega, che fa di noi un unicum.

Cosa pensa del fatto che le materie di “Libà” – matematica, inglese… – non siano più rese obbligatorie nelle scuole religiose in Israele?
Se c’è un gruppo numeroso di genitori che pensa che questo sia il modo giusto di educare i figli, – senza materie secolari – penso che lo Stato debba tenerne conto. È la via educativa scelta da quei genitori, da quelle famiglie. Lo Stato concede alle famiglie di seguire ciascuna la propria strada educativa; non costringe, non impone una strada educativa univoca, secolare o confessionale che sia. E non mi pare che i risultati siano cattivi. Israele è un Paese in cui alcuni di questi giovani poi entrano nell’esercito, nel mondo del lavoro… e quindi se si sceglie la via della non-costrizione si è dimostrato che funziona.

Cosa pensa del fatto che questo governo voglia dare più potere alle corti rabbiniche, ai Bate’i Din, rispetto alla Rabbanut centrale?
Non è così. Una volta, fino a vent’anni fa, chi voleva dirimere questioni economiche poteva farlo anche di fronte a un certo Bet Din, e le relative decisioni avevano un valore legale. Poi questo è stato impedito. Oggi c’è una proposta di legge per tornare a quella situazione in cui, se entrambe le parti sono d’accordo, ci si può rivolgere al piccolo Bet Din anche per controversie economiche e non solo religiose. Nei fatti, molti hanno continuato a rivolgersi al Bet Din in questi anni. Sono sorpreso di come queste notizie escano da Israele in modo parziale e inesatto. C’è un problema di hasbarà.

Lei finirà tra pochi mesi il suo mandato di Rabbino Capo di Israele. Si ripresenterà?
Io farò del mio meglio per agire in nome del Cielo e per unire il popolo ebraico.