Le tenebre del genocidio sull’Armenia di oggi

di Ilaria Myr

Armeni e ebrei, un destino storico parallelo. Ancora adesso, nel Caucaso, gli armeni patiscono i soprusi e le angherie dell’Azerbaigian filo-russo. A più di un secolo dalla barbarie del Metz Yeghern, il massacro degli armeni, intervista alla scrittrice de La Masseria delle Allodole, Antonia Arslan.

“Le scriviamo perché lei è la donna più potente del mondo, ma anche perché è una madre che ama i suoi sette figli e ha a cuore la sua preziosa famiglia. Dal profondo del nostro cuore, le chiediamo di stare dalla parte delle donne e dei bambini che vivono in Nagorno-Karabakh e la imploriamo a fare tutto ciò che è in suo potere per far cessare all’Azerbaigian il suo crudele blocco”. Così scrivevano, nel gennaio di quest’anno, alcune donne armene che vivono nell’enclave del Nagorno-Karabakh alla presidente dell’Unione Europea Ursula von der Leyen: un appello accorato a considerare le tragiche condizioni in cui stanno attualmente vivendo 120.000 armeni, dopo la chiusura da parte dell’Azerbaigian del corridoio di Lachin, che collega la regione all’Armenia, mettendo a rischio la vita delle persone per l’impossibilità di reperire beni essenziali, medicinali e cure mediche fondamentali per i malati cronici.

«La situazione è davvero disperata, la gente è sempre più impoverita e debole, ma sembra che tutto ciò non interessi all’Europa e al mondo. Purtroppo ciò dimostra che la storia non è “magistra vitae”…». Parola di Antonia Arslan, la scrittrice italo-armena che, dagli anni Duemila ha fatto conoscere al pubblico italiano con i suoi bellissimi libri (il primo, La masseria delle allodole, è del 2004), la barbarie del Metz-Yeghern (il “grande male”), il genocidio armeno perpetrato dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1919, che causò circa 1,5 milioni di morti. Una pagina tragica della storia del Novecento, purtroppo non abbastanza affrontata e approfondita, ricordata solo nel giorno della memoria a lei dedicata, il 24 aprile.

Quest’anno si è celebrato il 108° anniversario del Metz Yeghern. Ritiene che oggi questa memoria sia ormai accettata in Italia?
Credo che in Italia ormai ci sia una buona consapevolezza della realtà di questo genocidio, tenendo conto che la comunità armena nel nostro Paese è estremamente esigua, al massimo 5.000 persone. Nonostante ciò, trovo che da noi la conoscenza dell’argomento sia più approfondita rispetto ad altri Paesi in cui gli armeni sono molti di più, come in Francia o negli Stati Uniti. Mi hanno detto che il mio primo libro, La Masseria delle allodole e il film che ne hanno tratto i fratelli Taviani – nonostante i mille ostacoli frapposti dalla censura turca alla sua realizzazione – abbiano contribuito alla conoscenza di questa pagina della storia contemporanea, e devo ammettere, sentendomi lusingata, che probabilmente è stato così. Il libro è stato adottato in molte scuole, ha subito molte riedizioni (tra cui la collana dedicata agli armeni di Guerini editore, ndr), e ha avuto il merito di dare il via alla pubblicazione di altri testi sul tema, che hanno anche approfondito altre questioni, compresa la relazione fra il Metz Yeghern e la Shoah ebraica. Non si deve dimenticare che colui che coniò nel 1944 il termine genocidio applicato alla Shoah, il giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin, considerava quello armeno il primo episodio in cui uno Stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo. In Italia il genocidio armeno è stato riconosciuto dal Parlamento nel 2001 e nel 2019, e da allora in molte città ogni anno si tengono cerimonie per la giornata del 24 aprile. Esiste tuttavia una forte forma di negazionismo di matrice turca, che condiziona anche il riconoscimento da parte di alcuni Paesi, fra cui Israele, che con mio grande dispiacere non ha ancora fatto questo passo per motivi geopolitici.

Oggi però gli armeni sono ancora oggetto di violenza e soprusi, questa volta da parte dell’Azerbaigian, nella zona del Nagorno-Karabakh. E anche di questo si parla pochissimo…
Purtroppo in questi cent’anni il popolo ha sofferto e tutt’oggi soffre ancora molto. Questo perché, quando ancora faceva parte dell’Unione Sovietica, erano state concesse all’area azera due zone a maggioranza armena, il Nakhichevan (oggi al confine con Armenia, Turchia e Iran) e la regione autonoma del Nagorno-Karabakh, in cui ha sempre vissuto una popolazione armena autoctona. Dopo la fine dell’Urss e la nascita dello Stato indipendente di Armenia, l’Azerbaigian ha rivendicato il proprio dominio su queste terre: in Nakhichevan è stata attuata una vera e propria de-armenizzazione del territorio, costringendo gli armeni a lasciare la zona e distruggendo tutte le vestigia antiche della cultura armena (persino le fondamenta delle chiese!).
Il Nagorno-Karabakh, che era divenuto indipendente nel 1994, con un suo governo, dopo la guerra del 1992-94 vinta dagli armeni, è stato però in parte occupato nel 2020 dalle truppe azere. L’intermediazione della Russia ha portato a una tregua, ma di fatto l’enclave armena di 120.000 persone è ancora in pericolo. La situazione è ulteriormente peggiorata dal 12 dicembre 2022, quando l’Azerbaigian ha reso inaccessibile al traffico civile e commerciale il corridoio di Lachin, che collega la regione del Nagorno-Karabakh all’Armenia, mettendo a rischio la vita delle persone per l’impossibilità di reperire beni essenziali, medicinali e cure mediche fondamentali per i malati cronici. La situazione, mi creda, è davvero disperata.

Quanto è importante oggi tramandare la memoria dei genocidi armeno ed ebraico?
È fondamentale, per ridare dignità a chi è stato sterminato, e soprattutto per fare luce sui lati oscuri di quei fatti che non sono mai davvero emersi. Nel caso del Metz-Yeghern, la ricerca storica sta scoprendo ancora molti documenti sparsi nel mondo, che i turchi non sono riusciti a distruggere: pensi che in una biblioteca del quartiere armeno di Gerusalemme sono state ritrovate tutte le Gazzette Ufficiali dell’Impero ottomano relative ai processi svolti fra il 1919 e il 1921 agli autori di “disposizioni e massacri”, cioè alcuni dei colpevoli del genocidio: una specie di Norimberga armena. Lo storico turco Taner Agçam, poi, ha di recente dimostrato l’autenticità – fino a oggi confutata dalle autorità turche – dei telegrammi di Mehmed Talat Pascià, Ministro degli Interni dell’Impero, in cui si parlava chiaramente di deportare gli armeni “nel nulla”. Inoltre, dagli anni ’90 in poi sono stati tradotti anche in italiano alcuni testi importanti, come i diari dell’ambasciatore americano a Istanbul Henry Morgenthau, scritti fra il 1913 e il 1916 (Diario. 1913-1916. Le memorie dell’ambasciatore americano a Costantinopoli negli anni dello sterminio degli Armeni, edito da Guerini e Associati). E poi ci sono le terze generazioni (di cui fa parte anche Arslan, ndr) in giro per il mondo che riscoprono le proprie radici e raccontano quello che è stato loro tramandato. Io stessa di recente ho scoperto la storia di una sorellina di mio nonno, Aghavnì, di cui non sapevo l’esistenza, e a lei ho dedicato il mio ultimo libro (Il destino di Aghavnì, edito da Ares, ndr). Era scomparsa con la sua famiglia quindici giorni prima dell’inizio del massacro, probabilmente rapita come tante altre donne armene dai turchi. Di queste donne si è occupata anche l’associazione fondata dal già citato Henry Morgenthau, ‘Near East Relief’, che raccolse, negli anni successivi al genocidio, decine di milioni di dollari per i sopravvissuti armeni che vagavano nel deserto siriano. Alcune di queste donne furono ritrovate e riscattate dall’organizzazione dopo la fine della guerra, ma molte altre ormai avevano nuove famiglie turche, e rimasero in cattività.

Che fare in futuro per riuscire a mantenere viva la memoria, tenendo conto che la Storia non è “magistra vitae”?
Si deve conoscere la Storia e le tante storie che la compongono. Purtroppo oggi c’è nella scuola italiana un problema nell’insegnamento della Storia. Per questo è importante leggere le testimonianze di chi visse quei fatti o dei nipoti che hanno trovato i diari dei nonni di quel periodo – come Anny Romand, autrice di Mia nonna d’Armenia, edito da La Lepre edizioni – o che hanno scoperto in età avanzata la loro vera identità, come racconta Fethiye Çetin in Heranush mia nonna (Alet Edizioni). E soprattutto non essere indifferenti alla sofferenza di altri essere umani.