«Bruciavo nel tank, invocando mia mamma, i compagni e Israele, la mia terra per sempre»

di David Zebuloni

Personaggi: intervista a Avigdor Kahalani, eroe di guerra. È una leggenda vivente. Ministro con Rabin, generale, scampato alla morte in battaglia innumerevoli volte, è un Ghibor Israel, eroe d’Israele, amato da tutto il Paese, destra e sinistra, laici e religiosi. «La morte? Ti rende più consapevole del dono della vita. Perché nemmeno un istante va sprecato»

 

Avigdor Kahalani appare tutto fuorché un eroe, eppure, in Israele, il titolo ufficiale con il quale viene annunciato negli studi televisivi, accolto nella Knesset o, più semplicemente, riconosciuto per strada, è quello di Ghibor Israel: Eroe d’Israele. Kahalani, 79 anni, è un eroe in carne ed ossa, su questo non vi è alcuno dubbio. Forse, uno tra i più grandi personaggi della storia dello Stato d’Israele.

 

Quando scoppia la Guerra dei Sei Giorni e il giovane Avigdor, un carrista per la precisione, si trova sul campo di battaglia, viene colpito dal fuoco nemico e ricoverato d’urgenza. Kahalani risulterà essere il più grave ferito di quel combattimento, con un’ustione di terzo grado in più del 60% della superficie del corpo. I medici dichiarano di non poterlo curare, ma avviene il miracolo: dopo dodici complicati interventi chirurgici e un anno di ricovero, il soldato sopravvive. Alla guerra dello Yom Kippur, Avigdor non potrebbe partecipare, ma falsifica i certificati medici e riesce a scendere in campo. Organizza 150 carri armati e li guida verso il confine siriano. Riesce così a sconfiggere i 470 carri armati nemici e salvare l’intera Galilea.

Una leggenda? Un mito? No, questo è Kahalani. Ho avuto la fortuna di incontrarlo nel 2019. Da allora, il veterano, già morto e resuscitato diverse volte, ha dovuto affrontare l’ennesima battaglia per la vita, quando un batterio mortale l’ha attaccato e costretto ad un ricovero prolungato. “L’eroe di Israele è morto”, hanno annunciato in modo prematuro alcuni giornali, ma Avigdor è ancora qui.

Oggi lo incontro a casa sua a Tel Aviv e lo trovo più in forma che mai. Nel frattempo ha scritto sei libri, tra cui alcuni di poesia, e ha fondato un partito (ora sciolto), Haderech Hashlishit, la terza via. Mi accoglie con un sorriso radioso e un abbraccio quasi paterno, certo non da ex combattente duro e puro. «Sei venuto a controllare se sono ancora vivo?», mi domanda divertito. Osservandolo, mi rendo contro che è più vivo di chiunque altro io abbia incontrato. Avigdor Kahalani, infatti, ha l’aspetto di chi sa di aver riavuto la sua vita in dono, di chi è grato e felice di esserci ancora, nonostante tutto. L’aspetto di chi ha, almeno per ora, sconfitto la morte.

Avigdor, l’ultima volta che ci siamo incontrati mi hai detto «Dio mi vuole bene, ma spero che non me ne voglia troppo e non abbia fretta di riavermi accanto a sé». Com’è cambiata la tua vita da allora?
Lo scorso anno un batterio mi ha quasi ucciso. Il medico aveva detto alla mia famiglia di separarsi da me, ma sono tornato da loro ancora una volta. Quando sono arrivato alle porte del paradiso, o dell’inferno, non saprei, ho detto a Dio di avere l’agenda ancora piena di impegni, e lui mi ha risparmiato. Oggi ho quasi ottant’anni, ma mi sento ancora una pantera.

Continui a flirtare con la morte. Che cosa avviene un attimo prima che ci separiamo dal mondo?
La morte in campo di battaglia è diversa da quella in ospedale. In ospedale sei inconsapevole di ciò che ti sta capitando. Sei confuso, smarrito, ma anche ottimista, speranzoso. Quando sei in guerra, invece, sei consapevole di morire. Sei certo di essere giunto alla fine. Proprio come nei film, in un solo attimo vedi tutta la tua vita passarti davanti. Nella Guerra dei Sei giorni, quando stavo andando a fuoco, sai chi ho invocato?

Dio?
No, mia madre. Ho urlato mamma come un pazzo, con tutta l’aria che avevo nei polmoni. Quando stai per morire, l’unico Dio che ti rimane è la tua mamma.
Oggi sappiamo che la morte non è l’unica pena della guerra. Sempre più spesso sentiamo parlare di soldati colpiti da sindrome post traumatica. Ragazzi apparentemente vivi, ma morti dentro. Non giudico nessuno, ma io sono fatto diversamente. Io ho come un istinto di vita che parte dallo stomaco e si espande in tutto il corpo. Non mi lascio andare. Non lascio spazio ai ricordi violenti e ai pensieri sinistri. Ecco, talvolta, ho come la sensazione che questi giovani non combattano abbastanza contro i loro fantasmi. Contro i loro traumi. Dovrebbero fare un maggiore sforzo per sopravvivere.

La tua generazione era più forte della mia? O, forse, più coraggiosa? Più incosciente? Più idealista?
La mia generazione era semplicemente più abituata a battersi per ciò in cui credeva.

Sei mai andato dallo psicologo?
No, mai. D’altronde si va in terapia per raccontare i propri traumi a uno sconosciuto, perlopiù impegnato a mandare delle e-mail. Io faccio lo stesso, ma al posto di raccontarmi a uno sconosciuto, mi racconto ai gruppi di ragazzi che incontro. Tramandando la mia storia e trasmettendo loro il mio amore per questa terra, sento in qualche modo di esorcizzare i miei traumi.

Scusa se insisto, ma sei quasi morto una manciata di volte. Sei andato a fuoco insieme al tuo carro armato. Possibile che nulla ti turbi a tal punto da volerti rivolgere ad uno specialista?
Se cominciassi a contare le mie ferite, non finirei più. Mi ritengo una grande e grossa cicatrice vivente. C’è un evento, tuttavia, che mi ha segnato particolarmente e di cui non amo parlare. Nel primo giorno della Guerra del Kippur, quando ho sparato a un carro armato siriano, ho visto dal suo interno un soldato nemico andare in fiamme. Mentre il ragazzo cercava di uscire e mettersi in salvo, senza alcun successo, mi è capitata una cosa terribile. D’un tratto ho visto me stesso. Ero lui, ero quel soldato siriano che andava a fuoco e invocava sua madre. Ho provato un desiderio incontenibile di andare a salvarlo, ma ero paralizzato, non potevo muovere un muscolo. Ero sconvolto e terrorizzato.

Non hai mai voluto mandare tutti al diavolo e rivendicare le tue debolezze? Rinunciare a essere un “eroe”?
Nel privato, a volte, ma questo è il prezzo che devo pagare per essere rimasto in vita. E sono molto felice di essere vivo.

Essere eroi regala anche delle gioie. Nel Giorno dell’Indipendenza, infatti, sei stato invitato sul Monte Herzl per accendere una delle dodici fiaccole: uno dei massimi riconoscimenti che lo Stato può conferire ad un cittadino. Come hai vissuto il momento storico?
Ci sono delle emozioni private e delle emozioni collettive. Le emozioni che mi toccano di più, quelle che mi fanno piangere, sono le emozioni private, come quando mi nasce un nipote o viene a mancare un mio caro. Attimi intimi, che vivo con me stesso e con nessun altro. Quello sul Monte Herzl era un momento molto emozionante, ma di tutti, felicemente condiviso.

Ti tocca di più la felicità o la tristezza?
La tristezza. È l’unico sentimento che riesco a vivere appieno.

Avigdor, tu hai visto e vissuto il Paese in tutte le sue fasi. In prospettiva, cosa ne pensi dell’attuale crisi governativa?
Negli ultimi anni Israele si è spostata a destra, e credo che sia giusto così. Quando sono entrato in politica, il partito di Rabin aveva 44 seggi in parlamento. Avevo deciso di entrare a farne parte perché era un partito di centro sinistra. Nel tempo, il partito si è spostato sempre più a sinistra e ho deciso di lasciarlo. Oggi, lo stesso partito, quasi non esiste più. È in via di estinzione. La sinistra non ha avuto la capacità di evolversi insieme agli elettori, non ha saputo ascoltare la gente. Oggi gli israeliani credono sempre meno nella pace. Hanno dato troppo senza ricevere nulla in cambio. Pertanto, hanno perso un po’ di quell’ingenuità che avevano in passato.

Eppure tu eri uno di loro. Eri un ingenuo.
Sì, ero molto ingenuo. Volevo crederci, ad ogni costo.

Ti mancano quei tempi? Ti manca quel periodo di ingenuità in cui credevi che la pace fosse dietro l’angolo, pronta ad aspettarti?
Se parliamo di nostalgia, mi mancano solo i miei genitori che non ci siamo più, non certo i miei anni nella Knesset. Io sono un uomo realista e pratico, fortemente legato al presente. Non guardo mai indietro. Chi ha visto la morte in faccia, non può permettersi di guardare indietro.

 

Oggi credi nella pace?
Faccio molta fatica a fidarmi del nemico. Pensa che Abu Mazen è stato a casa mia. Sì, proprio qui, nel mio salotto. In veste di Ministro, invece, incontrai Arafat più e più volte. Mi aveva preso in simpatia perché parlavo un po’ di arabo. Ogni volta che uscivo dal suo ufficio, insisteva di volermi accompagnare fino alla macchina. Scendeva con me al parcheggio e aspettava finché non svoltavo l’angolo, salutandomi con la mano, come nei film. I suoi assistenti mi dissero che era un trattamento che riservava solo a me. Un giorno gli dissi “Yasser, yallah, cosa stiamo aspettando? Facciamo la pace”. Lui sorrise e non rispose. A differenza nostra, per i leader palestinesi è più difficile promuovere la pace. Se solo ci provassero, rischierebbero di non tornare a vivi casa.

In questo quadro apocalittico in cui la pace sembra un miraggio, cosa ti rende ancora ottimista?     
Il fatto che Israele oggi sia più sicura, più indipendente, più capace di difendersi.

Tu godi di un affetto unanime davvero raro in un paese frammentato come Israele. Essere accettato da tutti, ti permette di essere realmente te stesso?
Io assecondo solamente ciò in cui credo profondamente. Non temo l’opinione pubblica.

Eppure, quando ti esponi pubblicamente, ho come l’impressione che non ti spingi mai oltre la linea invisibile del politically correct. Che mantieni sempre un tono troppo pacato e contenuto per il soldato agguerrito che sei stato.
Io combatto le mie battaglie con forza, ma non prepotenza. Quando ero un soldato semplice, i miei superiori mi urlavano di stare zitto. Quando sono diventato generale a mia volta, ho sempre invitato i miei soldati a fare silenzio. Più si è gentili e più si è autorevoli: questa è l’equazione corretta.

Cosa cambieresti nella Israele di oggi?
Nulla, non perché penso sia perfetta, ma perché ritengo che sia ancora in evoluzione. Israele non sta facendo uno sprint, bensì sta correndo una maratona e la regola numero uno per chi corre su lunghe distanze, è non interromperlo in mezzo. Ecco, bisogna permettere a Israele di completare la sua corsa. Noi siamo qui di passaggio, facciamo a turno per difendere il nostro pezzo di terra, ma lei è destinata a restare per sempre.

La scorsa volta che ci siamo incontrati mi hai congedato dicendo che una vita condotta nell’ombra della morte è una vita sana. Una frase che mi ha turbato. Lo pensi ancora?
Assolutamente sì, oggi più che mai. La morte ti rende più consapevole del dono della vita. Grazie alla morte io non spreco nemmeno un istante della mia giornata. Penso ai miei compagni che se ne sono andati senza aver lasciato nulla. Senza aver piantato un albero, senza aver fatto un figlio, senza aver scritto una poesia. Penso a loro, nel giorno del funerale, quando avrebbero voluto interrompere la cerimonia e gridare: “Hey, smettete di coprirmi di sabbia, non ho ancora finito qui, non ho lasciato alcuna traccia del mio passaggio”. Se guardi la vita da dentro la bara, dalla prospettiva del morto, non rimanderesti nulla a domani. Anzi, ti sveglieresti ogni giorno con il desiderio di realizzare un sogno, di sorridere, di lasciare un segno nella vita degli altri. Quando arriverà il mio turno e sarò disteso nella bara, sorriderò e penserò: “Tranquilli, potete continuare a coprirmi di sabbia, perché ho fatto tutto”. Sì, ho lasciato la mia traccia.