Lo sterminio degli armeni e il destino comune agli ebrei: la dhimmitudine sotto i regimi musulmani

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture]

Nonostante le ovvie differenze, vi sono notevoli somiglianze fra Israele e Armenia: due piccoli Stati circondati da nemici che tentano implacabilmente di distruggerli, con alleanze fragili e indecise, accusati di “occupare” territori che fanno parte della loro eredità storica, obbligati dunque a difendere continuamente la propria sicurezza. E, al di là della situazione attuale in cui le costrizioni della geopolitica li vedono schierati su fronti opposti (gli armeni che hanno con l’Iran, il principale nemico di Israele, il solo confine non ostile; Israele che per vigilare e potenzialmente contrastare l’Iran ha bisogno dell’alleanza con l’Azerbaigian, il più attivo nemico dell’Armenia) vi sono somiglianze anche maggiori fra le storie che stanno dietro a questi Stati; due popoli antichi perseguitati da grandi imperi che volevano annetterli, privati dell’indipendenza, ridotti in maggioranza alla diaspora, che hanno vissuto a lungo principalmente col commercio.

Ma soprattutto entrambi vittime nella prima metà del secolo scorso di efferati genocidi che hanno sterminato quasi metà della popolazione e distrutto i loro principali insediamenti storici. Se della Shoah dopo il silenzio dei primi decenni si continua a parlare, benché purtroppo ciò non impedisca il ritorno dell’antisemitismo di cui siamo testimoni oggi sotto forma di antisionismo, del genocidio degli armeni, Medz Yeghern (il “Grande Male”) come lo chiamano loro, in generale si parla poco e il pubblico generale ne sa ancora meno.

Bisogna dire che la denuncia delle stragi ottomane contro gli armeni fu fatta inizialmente soprattutto da fonti ebraiche: l’ambasciatore americano a Istanbul Henry Morgenthau, l’agronomo Aaron Aaronsohn e sua sorella Sarah che lo testimoniò ai britannici, il grande scrittore Franz Werfel con il suo romanzo I 40 giorni del Mussa Dagh. Poi il genocidio fu illustrato da un altro romanzo importante, questa volta di un’autrice italo-armena: La masseria delle allodole di Antonia Arslan e naturalmente da numerosi studi storici. Ma ancora c’è bisogno di parlarne, anche perché in questo tempo è minacciata la vita stessa dello Stato armeno.

Lo fa di nuovo in Italia un ebreo, Vittorio Robiati Bendaud, che ha pubblicato un’importante riflessione storica sulla genesi e lo svolgimento del genocidio, intitolato programmaticamente Non ti scordar di me. Storia e oblio del genocidio armeno (Liberilibri, con prefezione di Paolo Mieli). Il libro riporta i fatti principali del genocidio del 1915, sottolineandone la continuità con i grandi “massacri hamidiani” del 1894-1897 e gli eccidi della Cilicia del 1909, ma anche con l’azione successiva alla fine della guerra, quando Mustafa Kemal, rifondatore della Turchia, cercò di completare l’opera di distruzione degli armeni. Ma quel che forse è più significativo e impressionante di questo libro è l’indagine sulle premesse socio-culturali delle stragi, cioè la riflessione sulla condizione di subordinazione (“dhimmitudine”) dei popoli non musulmani nel mondo islamico e nell’impero ottomano, il profondo radicamento di questa ideologia in una visione del mondo che include ancora oggi la condizione femminile e quella degli ebrei e l’illustrazione delle reazioni razziste anti-armene in Europa e soprattutto nel mondo germanico, perfettamente parallele all’antisemitismo. Sono fattori che oggi agiscono ancora e con cui ancora devono fare i conti tanto gli ebrei quanto gli armeni.