In ricordo di Shaul Greenglick: il soldato caduto in guerra, che sognava di fare il cantante

di David Zebuloni

La mia storia e quella di Shaul Greenglick, Shauli per me, ha avuto inizio tre anni fa circa, per puro caso, a casa di Hodaya: un’amica comune. La chimica e l’affetto sono sempre difficili da spiegare a parole, eppure, tra noi, c’è stata da subito chimica. E anche affetto. Quella che poteva essere una conoscenza occasionale o, peggio, un’amicizia di circostanza, si è presto sviluppata in un rapporto intenso di fiducia profonda e sincera, fatta di lunghe conversazioni notturne e incontri fissi nel solito bar a Ramat HaSharon, vicino a dove lavoro.

Con lui, si parlava sempre di futuro, di progetti, di sogni. Shauli aveva tutto ciò che io non ho: degli occhi azzurri che più azzurri di loro esiste solo il cielo in un giorno felice, un sorriso da bambino furbo e buono che riusciva a sciogliere e conquistare tutti senza alcuno sforzo, un carisma innato che lo rendeva magnetico come la più potente calamita e un talento indiscusso per il canto. Un talento che era anche e soprattutto passione. A tratti, vocazione.


Shauli sognava di fare il cantante. Non voleva fare altro che cantare. Non aveva un piano B. Non contemplava una realtà nella quale il suo sogno non diventava realtà. Ricordo che un giorno mi scrisse: “Sappi che al mio primo concerto, ti riservo un posto in prima fila. L’invito ti arriverà a casa”. Non era un’ipotesi. Nemmeno una fantasia. Era una constatazione. Shauli era convinto che il suo sogno si sarebbe presto realizzato. Era sicuro di sé e del suo dono, ma non era affatto saccente. Mai arrogante. Nemmeno un po’. Anzi, era estremamente umile lui. Talmente umile da chiedere e ascoltare (ascoltare per davvero) l’opinione di tutti. Anche l’opinione di chi, come me, non ne capisce proprio nulla di produzioni musicali. D’altro canto, io avevo ciò che a lui mancava: i piedi ben saldi per terra e una certa pragmaticità di cui lui spesso ignorava l’importanza. Il compito di Shauli, infatti, era quello di sognare in grande. A me, al contrario, veniva richiesta costanza, praticità e stabilità.

Così, una notte, poco prima dell’inizio della guerra, mi scrisse con entusiasmo contagioso di aver compiuto un passo concreto verso la realizzazione del suo sogno. “Mi sono iscritto a The Next Star. Quest’anno, è il mio anno”. Shauli aveva fatto richiesta per partecipare al programma televisivo canoro più seguito del paese, il cui vincitore rappresenta Israele all’Eurovision Song Contest. Si era iscritto, e subito era stato convocato alle audizioni. L’emozione era tangibile e riempiva gli angoli delle stanze. E del cuore. Il provino ufficiale è avvenuto in un secondo momento, a guerra ormai inoltrata. Shauli si era presentato negli studi di Channel 12 una mattina in divisa militare, aveva superato il provino con grande successo e alle cinque del pomeriggio era già diretto a Gaza.

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Quando il provino è andato in onda, Shauli era dentro la striscia. Senza telefono, senza contatti con il mondo esterno. La stella emergente aveva saputo del suo primo debutto televisivo solo la settimana successiva all’apparizione.
Poi è arrivata una telefonata inaspettata. “Ho deciso di lasciare il programma”, mi confidò mentre io protestavo. “Non posso cantare mentre i miei compagni rischiano la vita per il paese”, constatò lui irremovibile. Era l’occasione della sua vita, quella a cui stava rinunciando. “Non si abbandona un sogno per una guerra, difficile sì, ma passeggera”, gli spiegai, provando pateticamente a farlo desistere più e più volte. “Ora sto realizzando un sogno più antico: difendere il mio paese”, rispose lui, sereno, senza alcuna retorica. Poi mi mandò un messaggio: “Grazie di non avermi dato ragione, avevo bisogno di sentirti dire che sto sbagliando”. Poi, ancora, mi telefonò. Fu una chiamata brevissima. “Non immagini quanto io ti sia grato. Non sai quanto sono felice di averti con me. Ti voglio bene”. Non diedi particolare peso a quelle parole. Non credevo fosse un addio. D’altronde Shauli, a differenza di molti israeliani, non aveva mai paura di esprimere i propri sentimenti. Anche quelli più delicati. Shauli sapeva fissarti negli occhi con i suoi occhi disarmanti e dire Ti voglio bene senza imbarazzo. Senza pudore. In modo del tutto genuino e disinteressato. Shauli non aveva nemmeno paura di dire: “Ho un sogno e voglio realizzarlo”. Rivelare i nostri desideri più profondi, si sa, ci rende fragili e vulnerabili, ma lui non aveva alcuna paura di essere fragile e vulnerabile. La paura era un sentimento a lui sconosciuto.

Il 26 dicembre, Shaul Greenglick è caduto durante un combattimento a Gaza contro i terroristi di Hamas. Scrivo queste parole, e ancora stento a crederci. Shauli non c’è più? Impossibile. “Dove andranno a finire le nostre melodie? Chi canterà le nostre canzoni?”, ha gridato la sorella Michal al funerale, cantante anche lei, abituata a dividere il palcoscenico con il fratellino. Una domanda che non ha ancora trovato risposta.

 

“Tutti scherzavano sul fatto che tu fossi il mio figlio preferito. Che io ti amassi più di quanto amassi i tuoi fratelli e le tue sorelle”, ha detto la mamma Ruthy sulla tomba del figlio. Poi ha aggiunto: “No Shauli, non eri il mio figlio preferito. Una mamma non può amare un figlio più di quanto ne ami un altro. Io amo tutti i miei figli ugualmente, ma tu, Shauli, eri il più facile da amare”. Quanta verità. Era davvero facile amare Shauli. Forse, era impossibile non amarlo. Il suo cuore era accessibile a tutti. Così il suo sorriso. Non era proprietà privata di nessuno: era un bene collettivo. Illimitato. Chiunque poteva averne un pezzetto. Ognuno poteva godere della sua energia, che esaltava e non oscurava quella degli altri. Un ragazzo che emetteva luce propria. Che illuminava, come un sole. Come una stella. La stessa che avrebbe potuto essere. Che tanto desiderava essere.

Dopo il funerale, Hodaya, la nostra amica comune, mi ha raccontato di quella sera in cui era stata lasciata dal suo fidanzato e Shauli, puntuale, si era presentato alla porta di casa sua con un chilo di gelato al cioccolato. “Mi hanno spiegato che i cuori infranti si curano così”, le aveva detto raggiante. E le aveva curato il cuore, per davvero. Era un amico raro lui. Un amico leale e prezioso. Ma anche un figlio devoto, un fratello presente e un cittadino attivo. Un sionista convinto e coinvolto nelle sorti del suo paese. Shauli, infatti, non doveva prendere parte a questa guerra. Il 7 ottobre, non era stato convocato dall’esercito come riservista. Si è offerto lui volontario. È andato in base e ha chiesto ai superiori di mandarlo al confine per difendere la sua patria. Inizialmente loro non lo volevano, dicevano di essere al completo. Poi, si sono piegati alla sua volontà. Nessuno poteva dirgli di no.

Voglio precisare: non è stata la morte ad aver reso Shauli un eroe ai miei occhi e agli occhi di molti. In Israele, i martiri non esistono. In Israele esistono solo le morti ingiuste, che lasciano vuoti incolmabili. Shauli, in realtà, era un eroe già in vita. Soprattutto in vita. Un ragazzo conciliante e brillante, con l’anima dolcissima, buona, generosa, sensibile, raffinata, ma anche fortissima, ironica, sfrontata, coraggiosa, divertente. Anzi, esilarante. Mai malinconica. Al contrario, di indole sempre felice e spensierata. Piena di vita. Piena di voglia di vivere. Un’anima da poeta. Da artista. Ricordo ancora quella volta in cui, in mezzo alla notte, mi mandò una poesia bellissima, struggente, che aveva appena scritto. “Sei innamorato Shauli? A chi l’hai dedicata?”, gli domandai. “Al mio ultimo pacchetto di sigarette, ho smesso di fumare”, rispose lui divertito, imprevedibile, sincero. Aveva smesso per amor della musica. Desiderava cantare lui. Nient’altro che cantare. D’ora in poi canterà agli angeli in cielo. Noi, invece, continueremo a cantare qui. Con lui, per lui.

Oggi, riguardando l’audizione di Shauli andata in onda a The Next Star, un’esibizione armoniosa e pura com’era il suo cuore, realizzo l’entità della tragedia, della perdita, ma riconosco anche il dono prezioso che ci ha lasciato un attimo prima di andarsene per sempre: una canzone che suona come una preghiera o, forse, come un testamento. Una traccia, un segno indelebile in questo mondo. “Io ci sono stato”, mi sembra dire, mentre sorride alla telecamera. Un’audizione che è diventata virale in rete. Che ha fatto il giro del mondo. In Israele, non esiste persona che oggi non conosca il suo nome, il suo volto. In molti mi scrivono che dopo averlo sentito cantare, dopo essersi immersi nei suoi occhi azzurri, hanno come la strana sensazione di averlo conosciuto anche loro. Questo era Shauli. Uno di noi, uno di voi. Un ragazzo con dei sogni irrealizzati, morto per difendere Israele e l’occidente dalla minaccia del terrorismo islamico che periodicamente bussa alle porte di tutti: degli americani, degli europei, degli israeliani. Morto per difendere Israele e ciò che Israele rappresenta in Medio Oriente e nel mondo: la libertà, la democrazia, la vita.

Vi racconto di Shauli perché ho avuto la fortuna, l’onore, il dono straordinario di incontrarlo a metà strada. Di far parte della sua esistenza e lui della mia. Un incontro che mi costerà una vita di nostalgia, ma anche di ricordi dolci e felici. Vi racconto di Shauli perché scrivere di lui aiuta a elaborare il lutto, anche se non ad accettarlo. Vi racconto di Shauli soprattutto perché vorrei che non lo dimenticaste, così come mai potrò dimenticarlo io. Vi racconto di Shauli per necessità, sì, ma anche per dovere. E come vi ho raccontato di Shauli, potrei raccontarvi di Raz, di Yossef, di Elisha, di Gal, di Ariel, di Adi, di Shay, di Itay, di Lior, di Hillel di Gilad, di Eitan e dei centinaia di soldati che sono caduti in questi ultimi mesi, combattendo per amore della patria. Per proteggere le loro case. Centinaia di famiglie devastate, di mondi infranti, di sogni incompiuti. Senza Shauli, senza il sacrificio di questi eroi, oggi noi non saremmo qua. Possa il loro ricordo esserci di benedizione.