di Marina Gersony
Mentre continuano a singhiozzo le trattative per il rilascio degli ostaggi e per un cessate il fuoco a Gaza, emergono dolorose testimonianze che svelano l’agghiacciante esperienza vissuta dai giovani ostaggi durante la detenzione nella Striscia. Raccontano di giorni di agonia che hanno lasciato tracce indelebili e sanguinanti, cicatrici che continueranno a segnare la loro vita per sempre.
Intanto, un articolo toccante su ynetnews – dal titolo “Stiamo solo funzionando, non vivendo” – esplora con delicatezza e profondità lo stato psicologico di questi giovani sopravvissuti. Emily Hand, 10 anni (nella foto con il padre subito dopo la sua liberazione), e Hila Rotem Shoshani, 14 anni, sono tra coloro che, dopo 50 giorni di prigionia a Gaza, hanno ritrovato la libertà e adesso si trovano a fare i conti con un peso probabilmente impossibile da portare. Tornare a casa infatti non significa tornare alla normalità, non significa riprendere una quotidianità come se nulla fosse accaduto.
Due bambine in un incubo
Proviamo a immaginare la storia di due bambine tenute prigioniere; una storia fra tutte, conclusasi per fortuna con la liberazione dopo giorni da incubo. Una storia drammatica e allo stesso tempo una testimonianza di forza interiore e di speranza. La stessa forza che le ha aiutate a sopportare questa terribile prova.
Proviamo a immaginare la loro nuova realtà. Proviamo a immaginare il vento del deserto che soffia lieve, quasi impercettibile, e il silenzio della notte che avvolge le case sparse di Hatzor. Chissà cosa si cela dietro le finestre di quelle abitazioni in questo momento, dove il silenzio è interrotto dal fruscio dei pensieri, dai sospiri trattenuti, dai ricordi che si fanno largo. Questo potrebbe essere il mondo nuovo di Emily e Hila, le due bambine che hanno vissuto l’impensabile.
Emily, con i suoi occhi pieni di domande, dorme ancora accanto a suo padre Tom. Non riesce a rimanere sola nella sua stanza. Ogni rumore la spaventa, ogni ombra è una minaccia. La quotidianità di Emily e Tom è profondamente cambiata. «A Be’eri ci svegliavamo presto la mattina, e io la accompagnavo all’autobus per andare a scuola», racconta il padre. «Ora, a Hatzor, va a scuola in bicicletta. È sempre stata molto indipendente, e non ho mai cresciuto i miei figli in una bolla. Emily ha una personalità forte, e forse è proprio questo che le ha permesso di superare quello che ha vissuto. Ma, alla fine, è pur sempre una bambina di 10 anni». Emily teme perfino di dormire in soggiorno. Quando fa la doccia, usa il bagno meno comodo vicino al salotto, solo per sapere che il papà c’è dall’altra parte del muro. Durante il giorno, si muove tra scuola, la cuccia per i cani e le attività del kibbutz. Non è mai sola.
Per Hila, le notti sono ancora più difficili. «Fa fatica a dormire – racconta sua madre Raaya, sopravvissuta insieme a lei –. Non è più la bambina spensierata di prima. È diventata più forte, sì, ma quella forza ha un costo. Ogni volta che chiude gli occhi, è come se fosse ancora lì, a Gaza. E noi, anche se siamo a casa, non possiamo dimenticare chi è rimasto indietro. Ogni istante, ogni respiro, è un peso sul petto. Ogni rumore ci spaventa. Non possiamo andarcene senza cicatrici».
Per mesi Hila e sua madre hanno pensato costantemente a cosa stava succedendo e a Noa Argamani e Itay Svirsky, ancora prigioniere. (Qualche giorno dopo questa intervista – scrive ynetnews – l’IDF annunciò di aver recuperato il corpo di Itay Svirsky a Gaza durante un’operazione speciale; era stato ucciso dai suoi rapitori di Hamas a gennaio).
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Cicatrici visibili e invisibili
La prigionia non lascia solo segni nell’anima; trasforma anche il quotidiano. Per Emily, anche bere un bicchiere d’acqua riporta alla mente le razioni limitate dei suoi giorni di prigionia. «Ogni giorno ci davano una piccola bottiglia d’acqua per sopravvivere», racconta a sua volta Raaya, con lo sguardo fisso sul vuoto. «Adesso, ogni sorso mi fa chiedere: sarà abbastanza? È un pensiero che non se ne va».
La vita al kibbutz di Be’eri, dove tutto è iniziato, sembra un sogno lontano. Emily e suo padre ora vivono in una comunità diversa, un rifugio temporaneo che però non riesce a diventare casa. «Non stiamo vivendo, stiamo solo funzionando», dice Tom, sintetizzando il loro stato d’animo. Ogni angolo del nuovo quartiere racconta storie simili: vicini che hanno perso genitori, fratelli, amici. Un’ombra lunga che non si dissolve con il tempo.
Speranza tra le macerie
Nonostante il dolore, non manca la speranza. Hila sogna un viaggio in Thailandia con sua madre, lontano dal caos, lontano dalla paura. «Ma prima – dice con determinazione – tutti gli ostaggi devono tornare. Solo allora potrò iniziare a guarire, a pensare al futuro». «Non so se mi sentirò mai una bambina normale», ha aggiunto la bambina.
Emily, con la sua forte personalità, continua a frequentare la scuola in bicicletta e si dedica alle attività del kibbutz. È come se si aggrappasse a ogni frammento di normalità, cercando di ricostruire un’infanzia spezzata. Ma la verità è che entrambe le bambine portano dentro un peso che nessun adulto vorrebbe mai vedere.
Una comunità in attesa
Be’eri, il kibbutz che una volta era il cuore della loro vita, rimane sospeso tra il ricordo e la speranza. Tom, originario dell’Inghilterra, si chiede spesso se tornare abbia senso. «Amo Israele, amo Be’eri, ma non so se possiamo tornare finché tutto questo non sarà finito. Dipende da troppe cose: lo stato di Hamas, chi guiderà l’esercito e il Paese. Per ora, la fiducia è spezzata».
Eppure, ogni mattina, mentre il sole si alza sul deserto, c’è una promessa implicita nei loro gesti: quella di non dimenticare, di non arrendersi. Perché, come dice Raaya, «Il sogno è riportarli tutti a casa. Solo allora, forse, potremo davvero tornare a vivere».