Sudafrica: una comunità ebraica viva e vibrante… Nel ricordo di Nelson Mandela

Mondo

di Ilaria Myr

Corruzione, crisi energetica, instabilità politica e un forte antisionismo nel governo. Eppure la società civile del Sudafrica non conosce antisemitismo, dicono i 60 mila ebrei (quasi tutti ashkenaziti), orgogliosi della vivacità della propria comunità, ma preoccupati per il suo calo numerico. In attesa delle elezioni del 2024

 

«Forse l’immagine è un po’ scura: sa, qui in Sud Africa l’elettricità manca ormai da 15 anni per almeno 12 ore al giorno, e se non si ha un generatore privato si sta al buio… Disservizi di questo tipo, che impattano profondamente sulla vita quotidiana, insieme a una diffusa corruzione dei governanti fanno sì che molti ebrei sud-africani emigrino all’estero, per dare ai figli un futuro più certo e migliore». Ci parla da una stanza semibuia illuminata solo da una lampada Howard Sackstein, imprenditore ebreo di Johannesburg molto attivo nella vita comunitaria della città e del Paese: è stato un membro fondatore del Jewish anti-apartheid movement, che lottò attivamente contro il regime discriminatorio, ed è attualmente presidente del giornale ebraico SA Jewish Report. È quindi sicuramente una persona molto adatta per aiutarci a conoscere più da vicino la comunità ebraica sudafricana, che oggi conta circa 60.000 membri, situati principalmente a Johannesburg (circa 30.000) e a Cape Town (13.000), con piccole comunità a Durban, Pretoria e qualche gruppo sparuto a Port Elizabeth.

Una storia recente
Una piccola premessa storica. Le sue origini risalgono ai primi decenni del XIX secolo, quando un piccolo numero di immigrati ebrei, principalmente dal Regno Unito e dalla Germania, inizi a stabilirsi in quelle che oggi sono le province del Capo Occidentale e del Capo Orientale del Sudafrica. Nel 1880, la popolazione ebraica complessiva era stimata in 4000 persone. Successivamente, un enorme afflusso di immigrati ebrei dall’Europa orientale – principalmente dalla Lituania e dintorni – vide la comunità crescere drammaticamente nel mezzo secolo successivo, prima che nuove leggi specificamente mirate a limitare l’ulteriore immigrazione ebraica fossero approvate nel 1930 e nel 1937. La maggior parte degli ebrei sudafricani oggi fa risalire le proprie origini all’arrivo degli immigrati dell’Europa orientale. Negli anni Trenta si verificò un ulteriore afflusso dalla Germania a seguito della persecuzione nazista e alla vigilia della Seconda guerra mondiale la popolazione ebraica contava poco più di 90.000 persone. Negli anni successivi ci furono molte immigrazioni – da Israele e da alcuni stati dell’Africa meridionale, tra cui Zimbabwe, Zambia e Namibia – tanto che nel 1970 si contavano 118.000 membri, e si moltiplicarono le istituzioni e organizzazioni ebraiche.
Durante il periodo dell’Apartheid molti furono gli ebrei che lasciarono il Paese per protesta e altri si impegnarono nelle attività anti-apartheid. Ma è vero che non mancarono quelli che, come altri bianchi, si arricchirono e prosperarono, così come è noto che Israele vendeva armi al regime.

Un presente fervido e attivo
Oggi la comunità ebraica sudafricana è una realtà vibrante e attiva, molto organizzata al suo interno, molto coesa pur nella sua varietà, che nel tempo non ha perso in vitalità, nonostante le diverse ondate migratorie; oltre che negli anni dell’Apartheid, infatti, molti ebrei sono partiti – in Israele, ma anche negli altri Paesi anglofoni – durante il periodo della transizione alla democrazia, nei primi anni Novanta, non sapendo che cosa sarebbe diventato il Paese. A Johannesbourg e Cape Town ci sono molte scuole ebraiche con orientamenti diversi e movimenti giovanili e moltissime sono le associazioni operative. «Siamo una comunità molto vivace, che organizza continuamente attività di tutti i tipi: ricreative, di intrattenimento, di volontariato, si potrebbe occupare il proprio tempo libero solo con le iniziative della comunità! – spiega orgoglioso Howard -. Durante il Covid, poi, il SA Jewish Report ha creato una vera e propria comunità digitale, con webinar dedicati ai più svariati temi: da quelli sanitari, tenuti da medici, a quelli più estetici, con parrucchieri che spiegavano come farsi la tinta, e molto altro. Ci hanno seguito milioni di persone da tutto il mondo, ebrei e non ebrei, ed è stato un vero successo. E ancora oggi, finita l’emergenza, continuiamo a mantenere queste attività in vita». Sempre durante la pandemia, era in funzione il servizio ebraico di assistenza Hatzolah, che forniva a domicilio infermieri, bombole di ossigeno, termometri e saturimetri e l’ambulanza nei casi più urgenti.
A causa delle migrazioni, però, quella sudafricana è una comunità anziana, con un ‘buco’ nella fascia 40-60 anni, e ancora oggi fa i conti con le partenze di giovani famiglie che vedono nel Paese un futuro troppo difficile. Corruzione, crimine e caos caratterizzano ormai da anni la vita quotidiana, come è evidente anche dalla mancanza di elettricità menzionata all’inizio dell’articolo. «L’African national Congress, che ha portato il Paese alla liberazione dall’Apartheid, ha fallito nella sua missione – commenta amaro Howard -. Tutte le aziende controllate dallo Stato sono fallite, e ai cittadini non viene fornito nessuno di quei servizi che normalmente dovrebbe ricevere dalle amministrazioni, come elettricità, sicurezza, salute. Ognuno deve pagare di tasca propria, ma gli stipendi qui non sono alti, e anche per chi, come un giornalista, guadagna bene, cioè 1500 dollari al mese, comprare un generatore autonomo di elettricità a 80.000 dollari o affittarlo a 3.000 all’anno è oneroso. Per questo molti giovani decidono di andare via».

Antisionismo e antisemitismo
Se si parla di Sud Africa, però, non si può non menzionare il forte antisionismo del governo e delle istituzioni, a cominciare dalle università. Nel marzo di quest’anno, ad esempio, l’Università di Cape Town ha invitato in video-conferenza due membri dei gruppi terroristici islamici Hamas e PIJ (Palestinian Islamic Jihad) – noti per inneggiare alla morte di tutti gli ebrei -, a rivolgersi agli studenti. Scoppiano le polemiche contro l’ateneo, che però non prende posizione: “Non siamo responsabili di quali relatori vengano invitati agli eventi ospitati da associazioni studentesche, le quali sono autonome”. E questo è solo uno dei numerosi episodi di odio e ostilità nei confronti di Israele che – spesso senza una conoscenza diretta della complessa realtà israeliana – viene visto come nazione che applica nei confronti dei palestinesi il regime di apartheid. «C’è una storica amicizia fra il partito più potente al governo, l’African National Congress, e il movimento palestinese, ed essendo l’Anc da molti anni al potere, ha permesso al movimento di boicottaggio di Israele BDS di essere sempre più rappresentato al suo interno – spiega a Bet Magazine Karen Milner, chairman del Southafrican Jewish Board of Deputies, l’organismo che rappresenta le istanze ebraiche presso il mondo politico e opera per la sicurezza dell’ebraismo locale -. Eppure all’inizio Nelson Mandela sosteneva Israele e la legittimità del sionismo ed era convinto che per avere la pace nella regione fosse fondamentale garantire la sicurezza a Israele: lui stesso vi si recò in visita nel 1999. Ma con il tempo il partito ha abbandonato queste posizioni di apertura».
Un esempio della politica di oggi dell’Anc è il downgrade dell’ambasciata sudafricana in Israele, che, pur non chiudendo, non ha più un diplomatico operativo, con conseguenti problemi per i sudafricani che ci abitano. Non si deve poi dimenticare che il Sud Africa è uno dei BRICS, quei Paesi con economia emergente che si propongono di costruire un sistema commerciale globale attraverso accordi bilaterali che non siano basati sul dollaro. Ne fanno parte anche Brasile, Russia, India e Cina, e dal gennaio 2024 anche Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia Saudita: tutti Paesi, questi, accomunati da una politica antioccidentale, in cui rientra anche l’odio per Israele perché, come spiega Howard Sackstein, «Israele è visto come una creatura coloniale dell’Occidente, ed è quindi un nemico».
Questi sentimenti antisionisti, però, sono in contraddizione con quelli della società civile, che anzi in molti casi nutre una simpatia nei confronti di Israele, o non ha alcun interesse per la questione. Senza dubbio una parte del merito va al Jewish Board che fa in modo che le attività contro Israele non impattino sulla vita degli ebrei. «Il nostro obiettivo non è necessariamente di difendere Israele ma di difendere gli ebrei nel Paese – spiega Milner -; quindi se c’è un boicottaggio all’università pensiamo che possa avere un impatto sugli studenti ebrei e quindi cerchiamo di fare in modo possano continuare a vivere in libertà senza alcun problema, anche grazie alla collaborazione degli atenei. E anche quando il BDS ha cercato di agire nei confronti dei business di israeliani ed ebrei, abbiamo agito anche in modo duro, anche legalmente se necessario».
Per tutti questi motivi, si può dire che l’antisemitismo in Sud Africa sia praticamente inesistente, con soglie molto inferiori rispetto all’Europa: sopravvivono gli stereotipi dell’ebreo ricco e potente – più forti fra la popolazione nera, essendo gli ebrei bianchi -, ma in generale c’è simpatia e rispetto, anche grazie all’impegno della comunità ebraica nei confronti dei bisogni della società, tramite organizzazioni come Afrika Tikkun, che lavora sui giovani e la povertà, e The Angel Network, che fornisce cibo alle zone più povere del Paese.

La sfida del futuro
Mantenere una comunità vibrante e attiva come lo è oggi, a fronte di una diminuzione dei suoi membri: è questo il challenge più grande per la comunità sudafricana, che deve fare i conti con emigrazioni sempre più frequenti. «Molto dipenderà anche dal risultato delle elezioni del 2024, che saranno determinanti per tutti nel Paese – commenta Milner -. Se l’Anc perderà la sua posizione dominante, non è detto che sarà un bene… ».