Realpolitk

Mondo

Dal “lodo Moro” al caso Libia.

Si chiama pragmatismo politico o Realpolitk l’uso di improntare le relazioni internazionali tra Nazioni o Istituzioni sul conseguimento di risultati concreti (economici, sociali e di potere), piuttosto che alla difesa di principi (democrazia, diritti umani, verità storica).
Gli esempi sono sotto gli occhi di chiunque voglia guardare e questa estate ne abbiamo avuti diversi: dolorosi, eclatanti, difficili da digerire.

Primo tra tutti il cosiddetto “lodo Moro”, l’accordo negoziato dallo statista italiano con i terroristi palestinesi (“La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della “resistenza palestinese” che, autorizzata dal “lodo Moro” a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo”. Francesco Cossiga, Corriere della Sera 8 luglio 2008). Quell’accordo però, stretto negli anni Settanta, non impedì agli “amici” di Cossiga di compiere l’attentato alla Sinagoga di Roma nel 1982 e di uccidere il piccolo Stefano Taché.

Più recentemente, le violenze ai danni dei cristiani in India, accusati dagli indù di “proselitismo”, ma soprattutto di togliere attraverso la conversione i “paria” dalla loro condizione di intoccabili, destinati senza possibilità di redenzione ai lavori più umili e quindi più sfruttati dalla società delle caste – pur formalmente abolite nell’India moderna.
Scrive con amara ironia Pierluigi Battista sul Corriere il 1 settembre: “Ma quante pretese, e che tormento con questa storia dei cristiani perseguitati nel mondo, delle suore arse vive dai fondamentalisti indù, con la Chiesa che implora addirittura un intervento dell’Onu perché metta un freno a quegli sporadici episodi di discriminazione religiosa che esageratamente i cattolici definiscono ‘cristianofobia’.
(…) Come se davvero potessero smuovere la coscienza mondiale i vescovi cinesi spariti per non aver accettato la sottomissione del silenzio patteggiata con il regime, i 300 mila cristiani inghiottiti nel nulla nella Corea del Nord, i sacerdoti sterminati e le suore eliminate, le decine e decine di missionari (cattolici e protestanti) massacrati negli agguati che insanguinano il Sud delle Filippine, gli attentati in Indonesia contro le comunità cristiane colpevoli soltanto di aver esibito un crocefisso. In Arabia Saudita i cristiani non possono costruire chiese, se vengono trovati in possesso di una croce rischiano la morte …”.
Ma non ricorda, Battista, Papa Giovanni Paolo II, durante il suo viaggio in Medio Oriente? Incontrò il giovane tiranno Assad di Siria e lo lasciò dire, senza battere ciglio, che i bambini palestinesi vengono massacrati dagli ebrei come dei novelli Gesù. Non ricorda Battista quando i terroristi palestinesi occuparono la Basilica della Natività e Padre Ibrahim Faltas per giorni e poi per settimane raccontò frottole alla comunità internazionale per far passare i palestinesi per placidi agnellini? Non ricorda Battista monsignor Hilarion Cappucci e i suoi traffici di armi con l’auto diplomatica protetta dalle insegne del Vaticano? O ancora le requisitorie a senso unico – contro Israele, ovvio- del Patriarca emerito di Gerusalemme Michel Sabbah?
O ancora, quando i palestinesi occuparono le case dei cristiani di Beit Jalla, per sparare sugli israeliani, sperando di provocare una reazione che avrebbe – come in effetti è avvenuto – scatenato le proteste del Vaticano? E la fuga dei cristiani dal Medio Oriente?
È per prima la Chiesa a non difendere apertamente, vigorosamente, i suoi figli; fa un uso cinico della Realpolitik nelle relazioni internazionali, soprattutto con il mondo arabo-musulmano, che pur avendo come scopo dichiarato di “salvaguardare i cristiani nel mondo” si è dimostrata totalmente inefficace, perché a lungo andare l’acquiescenza, la debolezza, paga in monete di stagno.

Un altro esempio di questo pragmatismo politico è ancora più recente: l’accordo siglato tra Silvio Berlusconi e Muhammar Gheddafi. Un “accordo di amicizia e cooperazione”: l’Italia investirà circa cinque miliardi di dollari in 25 anni destinati a numerosi progetti, tra cui la costruzione dell’autostrada costiera che attraverserà la Libia.
In cambio, ha detto Berlusconi “otterremo gas e petrolio libico, che è della migliore qualità, a condizioni di favore”. Gheddafi dovrebbe impegnarsi anche a controllare le partenze dei clandestini dalle sue coste, e basta questo a far felice anche la Lega. Il confine libico sul mare è lungo quasi 2000 chilometri e d’altronde Gheddafi aveva già fatto promesse in tal senso, scritte sull’acqua del Mediterraneo.
Ma tant’è: gas e petrolio valgono l’imbarazzo di stringere la mano a chi firmò la strage di Lockerbie, a chi ha appoggiato e finanziato il terrorismo palestinese, a chi ha espulso migliaia di ebrei (1967) e di italiani (1970) spogliati di tutti i loro beni. Realpolitik.

Ma l’esempio più eclatante di pragmatismo politico si è avuto con le Olimpiadi di Pechino, con i politici che hanno reso omaggio al gigante asiatico, chiedendo sottovoce agli atleti di fare un gesto in difesa dei diritti umani. Giustamente gli sportivi hanno rispedito al mittente questa responsabilità; la loro forza e il loro coraggio dovevano dimostrarlo nelle gare. Stava al CIO chiedere alla Cina garanzie e atti concreti prima di regalarle il palcoscenico sfavillante su cui esibire la propria potenza. Ma gli articoli in cui si mostravano i piccoli cinesi sottoposti agli allenamenti “militari” nelle palestre sono passati sotto la voce “folkore”, e i perseguitati politici, gli operai schiavi, i minatori martiri, il Tibet non si sono visti proprio. Meglio così, che imbarazzo se no commentare il gesto atletico se fosse accaduta una nuova Tienanmen. La Cina oggi è tutto ciò di cui l’Occidente non può fare a meno: mercato, scienza, futuro, mano d’opera a basso costo e progetti innovativi. Manca solo la libertà, ma che cosa possiamo farci? Realpolitik. Anche Internet e la sua apertura globale ha accettato di limitarsi, di farsi censurare pur di diffondersi tra centinaia di milioni di nuovi utenti. Yahoo ha addirittura contribuito all’arresto di un giovane reporter cinese, Shi Tao, condannato poi a 10 anni di carcere, fornendo alla polizia il suo indirizzo. La sua colpa? Aveva mandato ad un amico una mail in cui parlava del divieto per tutti i giornalisti cinesi di commemorare in qualsiasi forma l’anniversario del massacro di piazza Tiananmen del 4 giugno 1989. “Divulgazione di segreto di Stato”, 10 anni di carcere. Yahoo! Realpolitik.