La Riviera di Gaza: una provocazione fantasiosa? Ne parla Kobi Michael

Mondo

di Sofia Tranchina
A seguito delle roboanti provocazioni mosse da Donald Trump nella conferenza stampa congiunta con Benjamin Netanyahu del 04 febbraio 2025 a proposito del futuro di Gaza – secondo cui la Striscia diventerebbe una località lussuosa di proprietà americana e i quasi due milioni di arabi palestinesi che vi abitano verrebbero evacuati e trasferiti in nuove località costruite per loro – il mondo si è diviso tra chi ha preso sul serio la proposta e ha reagito come ci si aspetterebbe, ovvero con grande indignazione, e chi ha ritenuto si trattasse solo di un bluff per cambiare le regole di negoziazione e ha cercato di ridimensionare le affermazioni del presidente americano. Ne ha parlato il professor Kobi Michael, ricercatore senior presso l’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv e il Misgav Institute for National Security and Zionist Strategy durante un incontro online organizzato dalla Europe Israel Press Association (EIPA).

Innanzitutto Trump ha elencato, tra i suoi precedenti successi, la sconfitta dell’ISIS, l’uscita dall’accordo nucleare con l’Iran, le sanzioni contro Hamas e altri proxy iraniani, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, la sovranità israeliana sulle alture del Golan e la promozione degli Accordi di Abramo. Dopo aver ribadito la solidità dell’alleanza tra Stati Uniti e Israele, Trump ha proposto per il futuro della Striscia di Gaza un piano che ha suscitato sgomento e incredulità tra analisti e giornalisti. La sua visione? Trasformare Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”.

Secondo Trump, essendo la Striscia un “inferno inabitabile”, i suoi abitanti non avrebbero alcun desiderio reale di viverci: «Hamas l’ha resa un posto terribile e ingiusto per le persone. L’unico motivo per cui vogliono tornare è perché non hanno alternative. Se avessero un’alternativa sicura e meravigliosa, preferirebbero non tornare a Gaza». Il Presidente sembra non capire – o ignorare deliberatamente – il sentimento che può legare un popolo a una terra, anche una terra martoriata, anche una terra (secondo le sue parole) inabitabile. Poco importano le poesie di Mahmoud Darwish e di Tawfik Zayyad: «Se saremo assetati spremeremo il deserto // mangeremo polvere se avremo fame // ma non ci muoveremo!» (Hunā bāqūn, Tawfik Zayyad). Poco importano, sembrerebbe, gli innumerevoli sacrifici di chi per quella terra ha rinunciato a tanto, troppo, ed è sopravvissuto per sedici mesi in zone di guerra attiva aspettando e sperando di avere un giorno sollievo.

La sua soluzione di Trump – dopo aver «studiato molto attentamente la questione per molti mesi, da ogni angolazione possibile», a quanto dice – prevederebbe lo sfollamento totale della popolazione palestinese, ovvero circa 1,8 milioni di persone, e il loro reinsediamento in aree sicure con infrastrutture costruite ad hoc.

Trump ha suggerito inoltre che Giordania ed Egitto potrebbero accogliere i gazawi sfollati, aggiungendo in tono di sfida: «So che il re di Giordania e il presidente dell’Egitto dicono di no ai giornalisti, ma alla fine apriranno i loro cuori e ci daranno il tipo di terra di cui abbiamo bisogno per questo progetto». Direbbero di no a Biden e a molti altri, ma non oserebbero dire di no a me, aggiunge ammiccando.

Il piano dell’imprenditore e magnate immobiliare americano prevede anche che gli Stati Uniti diventino proprietari della Striscia, e si sobbarcherebbero dell’onere di bonificarla da bombe inesplose e detriti bellici. Se fosse un’opera samaritana, sarebbe onorevole. La recente valutazione dell’inviato americano Steve Witkoff, dopo aver visitato la Striscia di Gaza, è infatti di una situazione disastrosa: ci vorrebbero cinque anni solo per ripulire la superficie e buttare giù gli edifici pericolanti, rimuovere le macerie, e smantellare circa trentamila bombe inesplose. Sarebbero poi necessari rilievi geologico-tecnici nel sottosuolo a causa dei tunnel del terrore scavati da Hamas, e andrebbero costruiti servizi e infrastrutture idriche e debellate levmalattie locali. Si tratta di un progetto che richiede secondo le stime iniziali almeno dieci o quindici anni.

Ma a quanto sembrerebbe ad ascoltare le parole di Trump, l’intenzione sarebbe quella di trasformare infine la Striscia in un’area turistica di lusso a vocazione internazionale: nessun ritorno garantito per i palestinesi, ma un luogo magnifico, la Riviera del Medio Oriente. «Gli Stati Uniti prenderanno il controllo di Gaza. Faremo un lavoro eccellente. Ne saremo i proprietari», ha spiegato, rincarando poi con un «Vedo una posizione di proprietà a lungo termine».

Alla domanda su chi vivrebbe nella nuova Striscia, ha risposto vagamente: «Persone da tutto il mondo, palestinesi inclusi», ma ha anche chiarito che Gaza non dovrebbe essere ripopolata dai suoi attuali abitanti: «Hanno provato questa soluzione per decenni e non ha mai funzionato. Non si può ripetere lo stesso errore all’infinito».

Infatti, gli Accordi di Oslo, avviati negli anni ’90, miravano a garantire ai palestinesi l’autogoverno in Cisgiordania e Gaza, con l’obiettivo di raggiungere un’intesa definitiva entro cinque anni. Tuttavia, il fallimento di questo progetto ha portato a decenni di conflitti. Trump si è mosso in direzione opposta, spezzando le vecchie dinamiche e adottando una strategia nuova.

Al netto della retorica “bombastica”, il piano di Trump appare più un esercizio di fantasia geopolitica che una vera proposta. Probabilmente, nemmeno lui intende portarlo a compimento. Piuttosto, è ipotizzabile che intendesse avanzare una mera provocazione volta a ridefinire gli equilibri negoziali: un modo per dire a Hamas che non controllerà più Gaza, a Teheran che Gaza non sarà più una base per il terrorismo, e ai paesi arabi che la responsabilità di aiutare i palestinesi non può ricadere solo su Israele.

Netanyahu, da parte sua, ha mantenuto una posizione più prudente, pur elogiando Trump per la sua capacità di “pensare fuori dagli schemi”. Ha ribadito i tre obiettivi di Israele: la distruzione delle capacità militari di Hamas, la liberazione degli ostaggi e la garanzia che Gaza non torni mai più a essere una minaccia.

«Durante la tregua, ogni volta che un leader di Hamas ha preso la parola, ha ripetuto: “Rifaremo il 7 ottobre, ma in modo ancora più grande”. Così come Trump ha sconfitto Al-Qaeda e l’ISIS, è evidente che Israele non può permettere a Hamas di sopravvivere. La pace non è possibile con un’organizzazione che minaccia la nostra esistenza, così come non si sarebbe potuta fare la pace in Europa dopo la Seconda guerra mondiale se il regime nazista fosse rimasto in piedi», ha affermato Netanyahu.

L’analisi di Kobi Michael

Il professor Kobi Michael, esperto di sicurezza nazionale e del conflitto israelo-palestinese, ha ricordato che gli stati arabi hanno spesso usato la causa palestinese per fini diplomatici senza mai farsi carico direttamente del problema. L’Egitto e la Giordania, ad esempio, hanno governato rispettivamente Gaza e la Cisgiordania dal 1948 al 1967 senza mai concedere ai palestinesi uno Stato. Inoltre, paesi come Libano e Siria hanno mantenuto i rifugiati palestinesi in campi profughi con diritti fortemente limitati. Trump, sostiene Michael, vuole smascherare questa ipocrisia, costringendo le nazioni arabe a un ruolo più attivo: accogliere i rifugiati, finanziare la ricostruzione o integrare i palestinesi nelle loro economie.

L’idea di un ricollocamento di massa dei palestinesi da Gaza è criticabile per le sue implicazioni umanitarie, ma, secondo Michael, Trump non ha mai parlato di deportazione forzata, bensì di migrazione volontaria. «Molti cittadini di Gaza vorrebbero andarsene, ma Hamas lo impedisce con la violenza». Secondo sondaggi precedenti al 7 ottobre, oltre il 40% della popolazione di Gaza desiderava già lasciare il territorio, e oggi questa percentuale sarebbe ancora più alta.

Michael cita l’esempio dei 200.000 gazawi che hanno pagato fino a 10.000 dollari ciascuno in tangenti per entrare in Egitto, mentre il presidente egiziano al-Sisi continua a opporsi pubblicamente alla migrazione su larga scala, suggerendo che l’opposizione di Egitto e Giordania sia più strategica che basata su reali difficoltà pratiche: il Sinai ha una superficie 167 volte più grande della Striscia (61mila km2 contro 365km2), con vaste aree potenzialmente abitabili ma ancora spopolate (600mila residenti totali contro i 2milioni che vivono nella Striscia), mentre la Giordania – che è già a maggioranza palestinese – ha già integrato ondate di rifugiati iracheni e siriani ben più numerose.

Alla domanda se l’Arabia Saudita stia chiedendo la creazione di uno Stato palestinese, Trump ha risposto: «No, non lo stanno facendo. Tutti chiedono una sola cosa: la pace». Secondo il professor Michael, il rifiuto saudita alla proposta di Trump è più una mossa diplomatica che un’opposizione reale. «Trump sta usando questa proposta per creare una leva negoziale: ora che i sauditi hanno detto di no, dovranno offrire qualcosa in cambio», spiega. Questa tattica rientra nella più ampia strategia di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, dove Riyadh vuole mantenere credibilità nel mondo arabo senza compromettere i rapporti con Washington.

Anche Mark Dubowitz, CEO della Foundation for Defense of Democracies, vede in questa strategia il tipico approccio trumpiano: «Alzare la posta in gioco per rendere ragionevole ciò che prima sembrava impensabile». In altre parole, Trump potrebbe non aspettarsi davvero che il piano venga accettato nella sua interezza, ma utilizzarlo per forzare compromessi favorevoli agli Stati Uniti e a Israele.

Infine Michael ha criticato l’Europa per il suo atteggiamento passivo: Germania, Francia e Spagna hanno definito il piano illegale e inaccettabile, ma «se vuole avere un ruolo, l’Europa deve allinearsi con gli Stati Uniti e fare proposte piuttosto che limitarsi a protestare».