Katrina: Una mano a chi soffre

Mondo

E’ ormai noto, dopo alcune settimane dall’immane sconvolgimento causato da Katrina, che moltissime organizzazioni ebraiche americane si sono prodigate per offrire aiuto, offerta di alloggio, denaro e quant’altro si fosse reso necessario per alleviare il dramma e i disagi delle sventurate vittime del tifone, e non solo ai loro correligionari.

Molti siti si sono aperti per la raccolta di fondi e altri tipi di aiuto, da Huston, da Biloxi dove sorge l’unica sinagoga della Costa, e da altre città. Le scuole si sono fatte centri di accoglienza per i senzatetto. I gruppi chiedono soprattutto denaro, che è meno deperibile e potrà venir utilizzato anche nei mesi prossimi quando l’interesse e l’accorata partecipazione di oggi tenderà fatalmente ad attenuarsi. Si sono costituiti fondi comuni: fra essi la Orthodox Union che si è coordinato con il Rabbinical Council of America e il YU Center for the Jewish Future per l’assistenza diretta a famiglie e comunità colpite dall’uragano. Un’altra organizzazione è la United Synagogue of Conservative Judaism, che opera con altre comunità ebraiche interreligiose per coordinare gli sforzi.

La Union for Reform Judaism si dedica ad aiutare le persone e le congregazioni a New Orleans, Jackson, Lafayette, Memphis, Atlanta e altre località, sempre con richieste di denaro e proponendo un sito per lasciare messaggi e offerte di aiuto.

Organizzazioni Chabad con sede a New York si sono dedicate al salvataggio di decine di ebrei per lo più anziani che non volevano abbandonare le loro case a New Orleans.

La Jewish Agency ha invitato gli studenti universitari di New Orleans – ebrei e non ebrei – a proseguire gli studi nelle università israeliane, e l’iniziativa verrà finanziata da organizzazioni ebraiche nordamericane. Si stanno inoltre mettendo a punto programmi a distanza per consentire agli studenti – sempre ebrei e non ebrei – di proseguire i loro studi.

A livello di scuole inferiori vengono preparati centinaia di zainetti con tutto l’occorrente, dai libri ai pennarelli, per i ragazzi più piccoli.

La Maimonides Society, un gruppo di medici ebrei locali, si sta dedicando all’aiuto degli sfollati, mentre molti rabbini provvedono a coordinare lo sforzo per venire incontro alle loro esigenze religiose.

Meno noto è che gli Usa hanno declinato, con varie motivazioni, l’offerta di aiuto da parte di Israele. Per le ragioni che stanno dietro questo rifiuto si avanzano solo possibili spiegazioni. Fra esse le difficoltà burocratiche connesse con l’assorbimento di numerosissimo personale straniero di primo aiuto e quindi possibili intralci con le già esistenti infrastrutture in Louisiana e Mississippi in grado di fronteggiare la crisi. Non va esclusa l’eventuale ricaduta politica dovuta alla ‘umiliante’ richiesta di aiuto a stranieri da parte della più grande potenza del mondo per contribuire a salvare vite umane in casa propria. E questo, a detta di un funzionario dell’International Aid che è un’organizzazione non governativa, sarebbe stata una ‘terribile ammissione di fallimento’.

Non ci occuperemo qui delle polemiche sull’incapacità o meno o sull’inadeguatezza o meno degli interventi di Bush, che sono state ghiotto pasto della stampa di questo periodo e che hanno oscurato quello che avrebbe dovuto essere il vero punto nodale di questo momento: l’aiuto alle vittime.

Ma Israele sarebbe stato l’unico in grado di aiutare, dato che un quadro di esperti medici, addestrati a intervenire in caso di attacchi terroristici, ha messo a punto una speciale esperienza in fatto di terremoti e zone disastrate in tutto il mondo: ultimo caso, l’arrivo di personale medico nel giro di poche ore nella zona dello tsunami lo scorso dicembre. Ovvero, nel 1998 la fulminea risposta israeliana ad Al Qaida dopo l’attacco alle ambasciate Usa in Africa orientale, ore prima dell’arrivo dei soccorritori americani, il che contribuì a salvare molte vite.

Per ritornare alla prima offerta israeliana dopo Katrina, venne proposto “l’invio di squadre mediche costituite da centinaia di persone, notevole attrezzatura medica, medicine e ulteriore apparecchiature all’uopo”, stando alle parole dell’ufficio del Primo ministro.

Basti pensare che l’offerta israeliana fatta giovedì 1° settembre, un giorno dopo che il governo Bush aveva dichiarato le conseguenze di Katrina stato di emergenza di salute pubblica, giunse entro il periodo cruciale di quattro giorni in cui tale assistenza è questione di vita o di morte: le squadre avrebbero potuto trovarsi sul posto nelle prime ore di venerdì mattina. Il Superdome, lo stadio di New Orleans, dove a migliaia gli sfollati trovarono ambiguo rifugio, non lo si cominciò a evacuare se non sabato. Ma l’amministrazione Bush declinò l’offerta nonché altre offerte di presidi medici di pronto soccorso e professionale proveniente dall’estero: il sistema medico più avanzato del mondo sarebbe stato sconfitto con troppa facilità. Uno smacco non accettabile, mentre l’aiuto immediato sarebbe stato cruciale nei primi giorni.

Nel suo discorso di venerdì 9 settembre, Bush ha infine ringraziato i paesi che hanno offerto aiuto con uno specifico riferimento a Israele.

Lia Sacerdote

Rav Yossi Nemes è un rabbino Lubavich che con sua moglie è rimasto coinvolto dalla furia dell’uragano a Metairie, un sobborgo di New Orleans. Quella che segue è la sua testimonianza.
Si dice che del senno di poi siano piene le fosse, ma non ne sono più così convinto. Talvolta, forse, se avessimo saputo che cosa ci riservava il futuro, avremmo preso decisioni diverse e allora, il bene derivante dalle azioni che abbiamo intrapreso sarebbe stato perso per sempre.
La mattina dello Shabbat (27 Agosto) le previsioni indicavano che New Orleans sarebbe stata fuori dal percorso dell’uragano Katrina, ma chi arrivava in ritardo alla preghiera presso il nostro Centro Chabad portava voci secondo le quali potevamo trovarci proprio nel bel mezzo di esso. Dapprima la possibilità era del 10%, poi del 20 e, per la fine di Shabbat, era molto probabile che New Orleans sarebbe stata sul percorso dell’uragano.
Già domenica mattina le autorità raccomandavano caldamente l’evacuazione. Nonostante lo scetticismo di molti cittadini che avevano già avuto numerose esperienze di avvisi analoghi in passato, mia moglie, Chanie, e io cominciammo a preparare la nostra fuga da Metairie.
Presto cominciò un fiume infinito di telefonate da turisti dispersi e abitanti del luogo che cercavano consigli su dove andare e con che mezzi.
Alcuni avevano bisogno di aiuto nella preparazione dell’itinerario per l’evacuazione, altri cercavano rifugi alternativi e, a chi era deciso a rimanere e non si lasciava convincere, offrimmo consigli su come rinforzare le case e prepararsi.
Alle 11 mi avviai al piano terreno del nostro Centro Chabad per riporre i sacri rotoli della Torà e metterli relativamente in salvo nella nostra casa a due piani. Alcuni fedeli devoti vennero ad aiutarci e fissammo le assi alle finestre.
Le telefonate si fecero sempre più frenetiche. Mia moglie gestiva le chiamate che arrivavano in casa e io mi occupavo di quelle del Centro Chabad. Presto venne annunciata un’evacuazione obbligatoria e cominciò il panico. Fummo grati di trovare un paio di alberghi nel Quartiere Francese con camere libere al terzo piano e riuscimmo a inviare alcuni turisti non motorizzati presso di loro.
Una coppia di turiste fu scacciata dal suo albergo e, con il passare delle ore, le due donne non sapevano più che fare. Volevano consiglio. Istintivamente le invitai a stare da noi. Mentre stavo organizzandomi con un amico intento a fissare le assi alle finestre della sua attività in centro perché andasse a prenderle, mi chiamarono dicendo di aver convinto un tassista a portarle da noi a una tariffa tripla rispetto al solito.
Chanie invitò anche un altro paio di ragazze.
Le ore passavano in fretta, ma le chiamate non cessavano. Alcune persone anziane non erano in grado di andarsene e fu necessario aiutarle a preparare un elenco delle cose da portare ai piani più alti. Nelle rare pause tra le chiamate imballammo ciò che potemmo. Il vento cominciava ad aumentare. La radio riferiva di code di ore sull’autostrada.
Alle quattro trovammo finalmente qualche minuto per riunirci a preparare un piano per noi e per coloro che da noi ormai dipendevano, e scoprimmo che partire in auto a questo punto comportava un rischio notevole. Le notizie descrivevano una situazione tragica con code di ore sull’autostrada, mentre la tempesta si avvicinava. Se fossimo rimasti bloccati in autostrada in mezzo alla tempesta, D-o non voglia, le nostre possibilità di sopravvivenza sarebbero state di gran lunga inferiori che rimanendo nella nostra casa in mattoni, rinforzata contro l’uragano.
Verso le cinque i venti aumentarono di intensità e cominciammo a prepararci per il piano B.
Riempimmo d’acqua le vasche da bagno. Portammo le Torah di sopra, con i documenti importanti, i vestiti e altre cose grandi e piccole.
Alla fine rimanemmo in 13 al secondo piano della nostra casa. Pregammo per il meglio, ma cercammo di prepararci al peggio. Passammo il tempo a leggere i Salmi, a chiedere a D-o di risparmiare noi, l’intera Comunità Ebraica e tutta la gente di New Orleans, e parlammo della fede e della Provvidenza Divina.
Ci dedicammo anche a giochi di memoria e ad altri passatempi.
Le raffiche aumentarono raggiungendo la potenza di un uragano e, verso mezzanotte, arrivarono a una velocità di 110-135 miglia [ca. 177-215 km] all’ora nella nostra zona, a 35 miglia [55 km] dall’occhio del ciclone.
Sentivamo alberi enormi spezzarsi e, attraverso i lucernai, ne vedemmo alcuni volare via come carta. Le nostre imposte tremavano mentre i venti urlavano e sibilavano con un rumore assordante.
Tutto ciò continuò per buona parte del lunedì. I venti più forti (110-135 miglia/ora) continuarono con forza di uragano (75 miglia/ora e oltre) [120 km/ora], per circa sei ore delle quasi 14 ore successive.
Raccontammo storie di fede e di tenacia.
La Provvidenza Divina aveva fatto riscoprire solo da poco a mia moglie e a me alcuni degli scritti del Rebbe sull’espressione “tracht gut vet zein gut”, che significa “pensa bene e andrà bene”. Il Rebbe incoraggiava le persone che dovevano affrontare una sfida a farsi animo e a trasformarla, pensando positivamente.
Beh, parlare in modo positivo è una cosa, ma non potete immaginare l’effetto che questo ha su di noi e sugli altri quando ci si trova davanti a situazioni veramente difficili. Sentivo nelle ossa che i nostri pensieri positivi avevano il potere di farci superare tutto questo, mentre quelli negativi ci avrebbero fatto crollare. Fortunatamente, grazie al nostro modo positivo di pensare, rimanemmo tutti in buone condizioni di spirito e abbastanza ottimisti nonostante le circostanze. Inoltre, continuavamo a rassicurarci a vicenda che la nostra presenza non era senza scopo. D-o ci aveva guidato a restare, ad aiutare tutti coloro che ci chiamavano e a sostenerci l’un l’altro, e il nostro destino era ormai nelle Sue mani.
Lunedì mattina l’elettricità, il telefono e l’acqua corrente erano saltati. Eravamo sopraffatti dal calore intenso e dall’umidità e, senza correnti d’aria, la casa era soffocante. Eravamo in tredici seduti in quattro stanze da letto al secondo piano.
Ma eravamo vivi! Grazie a D-o sopravvivevamo!
I cellulari funzionavano a intermittenza e ci consentivano di avere notizie di altri membri della comunità ebraica rimasti indietro. Miracolosamente quelli che contattammo stavano bene, tutto considerato, e continuammo a incoraggiarci a vicenda.
Infine, nel primo pomeriggio i venti si calmarono e corremmo ad aprire le imposte e le finestre.
Potevamo guadare nel mezzo metro d’acqua del primo piano, ma non potevamo uscire di casa, poiché fuori l’acqua era profonda un metro e mezzo. Anche i cellulari si bloccarono e rimasero completamente isolati.
Passò una barca di soccorso medico dalla quale mi gridarono di accertarmi che nessuno in casa fosse in pericolo. Li mandai dagli altri della zona che sapevamo essere rimasti. Ci avvertirono di non avventurarci nell’acqua a causa della presenza di cavi elettrici e di serpenti velenosi. Ci assicurarono che sarebbero tornati il giorno dopo per avere notizie di tutti, ma non li rivedemmo più.
Oltre a studiare e pregare passammo la giornata a conversare di varie cose, grandi e piccole, e a ringraziare D-o per i suoi miracoli.
La sera ci accorgemmo che l’acqua era scesa di circa 5 centimetri e cominciammo ottimisticamente a preparare la nostra uscita di martedì.
Più tardi, però, apprendemmo dalla nostra radio a batteria che il livello dell’acqua sembrava aumentare e invitava con sempre maggior insistenza tutti, compresi i residenti di Metairie, ad andarsene! L’intera città rischiava di essere sommersa da 6 metri d’acqua. Ovviamente, la città non aveva ancora superato il peggio.
A quel punto non eravamo in grado di uscire ed, è inutile dirlo, eravamo molto tesi.
Quando l’argine infine cedette nel pomeriggio, il Genio Militare annunciò che l’acqua si sarebbe diretta verso la città e non verso di noi.
Ma a sole tre miglia [ca. 5 km] a ovest di dove eravamo, l’acqua cominciò a salire e in poche ore raggiunse i 6 metri. Pregammo che le persone stessero bene, ma ci sentivamo impotenti a fare qualcosa per loro.
Miracolosamente, gli argini e le pompe nella nostra zona resistettero e non subimmo ulteriori inondazioni.
[Il sistema federale di trasmissioni di emergenza rimase in servizio per tutto il periodo, ma gli altri mezzi di informazione a livello locale interruppero le trasmissioni. Più tardi venni a sapere che, in quel periodo, Metairie era stata scelta da alcune stazioni dei media in quanto zona particolarmente a rischio. Ma noi ne eravamo all’oscuro, e fu solo quando riuscii a parlare a mia madre, dopo un giorno intero, che venni a conoscenza della paura e dell’orrore vissuto dai nostri cari e dai membri della comunità che non riuscivano a contattarci e non avevano idea di come stavamo. Mi sento ora nello stesso modo nei confronti di quei membri della nostra comunità che ancora non sono stato in grado di sentire. Quando si aspetta di avere notizie dello stato delle persone alle quali si è profondamente legati, ogni minuto sembra durare un’ora.] Martedì notte dormimmo con le finestre aperte, circondati da un paesaggio di linee elettriche interrotte e di radici divelte, alcune delle quali grandi quanto il nostro tetto.
Ci sentivamo molto fortunati di essere vivi, sani e con mezzi di sussistenza sufficienti e provavamo un grande dolore per le molte migliaia di persone disperse e senza alcuna assistenza. Questo ci aiutò a mantenere la situazione nella giusta prospettiva e facilitò il compito di sopportare la nostra condizione.
Alla quattro del mattino di mercoledì, non riuscii più a tenere gli occhi chiusi, guardai dalla finestra e vidi che fuori non c’era più acqua ma solo fango; le pompe nella nostra zona avevano ripreso a funzionare! Uno spesso strato di fango copriva, imbruttendole, strade, case, auto e segnali stradali.
Mentre guardavo dalla finestra vidi un anziano vicino che non sapevo fosse rimasto. Era affacciato alla finestra del secondo piano della sua casa e cercava inutilmente di attirare l’attenzione degli elicotteri militari che la sorvolavano, facendo segnali luminosi con uno specchietto. Dalla disperazione che mostrava mi resi conto che aveva urgente bisogno di aiuto.
Barcollai attraverso il fango per raggiungerlo dall’altro lato della strada e scoprii che lui e la sua anziana moglie erano rimasti senza cibo per un giorno intero. La donna aveva problemi di cuore e bisogno urgente di cure ospedaliere. Non erano riusciti a contattare nessuno.
Immediatamente portai loro cibo e bevande e mi accertai che fossero idratati e rifocillati. Sorprendentemente lei si rilassò visibilmente e cominciò a sentirsi meglio. Sembrava che la sola interazione umana, unita chiaramente al cibo, le fosse stata di grande aiuto. Evidentemente, erano terrorizzati all’idea che nessuno li trovasse e sapesse dove fossero. Il solo vedermi e scoprire che c’erano altre persone in grado di offrire aiuto e cura sembrò rendere tutto diverso.
Andai con suo marito fino in fondo all’isolato, alla casa di una donna la cui linea telefonica, per qualche motivo, sorprendentemente, non era mai stata interrotta (tra l’altro, è la nostra segretaria…). L’uomo chiamò suo figlio che prese i provvedimenti necessari per venire in loro soccorso. Non so descrivere la sensazione che provai nel sentire la sua voce e nel vedere il suo volto quando suo figlio rispose al telefono. Possano tutte le nostre crisi concludersi in modo così felice.
Anch’io riuscii a parlare con mia madre, una conversazione che non dimenticherò mai.
Gli avvisi alla radio continuavano: Andatevene! Gli argini non sono ancora sicuri e il vostro quartiere può essere il prossimo ad essere colpito! Cominciammo a ripulire alcuni oggetti particolarmente danneggiati dal primo piano, bagnato e pieno di fango, della nostra casa, e facemmo le valige. Non avevamo idea di quando avremmo potuto tornare.
Mi incontrai con un’altra persona del nostro centro Chabad, Shmuel Markovitch che, con i suoi tre figli, rimosse gli alberi dalla strada, portò cibo e acqua ai vicini e, infine, mi aiutò a mettere in moto una delle nostre auto. (L’altra si rivelò troppo danneggiata dall’acqua persino per le mani meravigliose di Shmuel.) Dovendo evacuare 13 persone, mi diede le chiavi di un piccolo camion frigorifero, normalmente utilizzato per il cibo kasher, e insistette nel farmelo usare per andarcene. Con la sua intraprendenza e il suo spirito di sacrificio posso solo immaginare quante vite abbia salvato. (Alla fine se ne andò e ora e a Miami, grazie a D-o.)
Venni anche a sapere che Rabbi Zelig Rivkin, l’emissario capo dei Lubavitch nello stato, era riuscito ad andarsene il giorno prima, poco dopo la rottura degli argini. Il suo cuore era a pezzi nell’andar via senza sapere di noi, ma aveva lasciato uno dei suoi veicoli, stipando 12 persone in due sole auto (una apparteneva a suo figlio, un altro emissario di questa zona), nel caso avessimo avuto bisogno di un mezzo per andarcene.
[Oggi si trova a Houston, e coordina i soccorsi. Seguiranno altre notizie al riguardo, a D-o piacendo.] Quando tutto fu pronto erano ormai le tre. Andando verso l’autostrada ci dirigemmo a casa di una famiglia ebrea evacuata. Se ne erano andati senza niente subito prima dell’uragano, e sapevamo che il loro figlio doveva sposarsi in California in quella settimana e che non avevano avuto la possibilità di prendere gli abiti per il matrimonio e altri oggetti importanti. Riempimmo due valige con le cose essenziali al matrimonio e ci mettemmo in strada. Un pulmino e un camion frigorifero pieni di gente ansiosa ma grata.
Anche se l’autostrada era solo a 2,5 km di distanza, e sebbene la nostra zona non fosse quella più duramente colpita, la distruzione che vedemmo era indescrivibile. Case totalmente crollate, tetti volati al di là della strada, strade non più degne di questo nome e oggetti personali che galleggiavano nell’acqua accanto ad alberi sradicati e automobili. Alcune persone vagavano per le strade completamente stordite. Era chiaro che moltissime famiglie e comunità avevano perso tutto. Pregammo che le persone fossero sopravvissute e in grado di cominciare a ricostruire.
In autostrada era consentito solo il traffico verso ovest e ci dirigemmo a Memphis a casa degli emissari Lubavitch locali, Rabbi Levi e la signora Rivka Klein.

(traduzione di Silvio Cohen)