Israele e Argentina, i rapporti nell’era Milei. Intervista a Loris Zanatta

Mondo

di Nathan Greppi
Alla fine del 2023, l’Argentina si è ritrovata al centro dell’attenzione mediatica dopo l’elezione del presidente Javier Milei, esponente del libertarismo di destra. Eletto il 19 novembre ed entrato in carica il 10 dicembre, Milei si è fatto notare, tra le altre cose, anche per la sua vicinanza agli ebrei e a Israele, al punto che ha espresso il desiderio di convertirsi all’ebraismo ortodosso.

Per capire qual è il percorso del presidente argentino e come potrebbero cambiare sotto di lui le relazioni tra Buenos Aires e Gerusalemme, Bet Magazine – Mosaico ha interpellato Loris Zanatta: già docente di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna, nello stesso ateneo ha diretto il Master in Relazioni Internazionali Europa – America Latina. Suoi articoli sono usciti su importanti testate italiane (La Lettura del Corriere della Sera, Il Foglio, Il Messaggero, Il Mattino) e argentine (La Nación, Clarín). Ha pubblicato oltre una dozzina di libri, perlopiù incentrati sulla storia dell’America Latina e sul peronismo argentino.

Loris Zanatta

Quali fattori hanno portato all’elezione di Milei?

Vi è una congiunzione di diversi fattori: il primo e il più evidente è l’ampia esasperazione dell’opinione pubblica argentina nei confronti del governo peronista. Come tutti i cicli politici, anche quello inaugurato nel 2003 da Néstor Kirchner è finito, lasciando un’eredità di devastazione economica, inflazione elevata, indebitamento e corruzione. Quindi, quello che si è visto, più che un voto per Milei è un voto di protesta contro il peronismo.

Come tutti i fenomeni populisti, anche quello peronista e kirchnerista tende a formare l’immagine del suo avversario; tanto il peronismo è stato radicale nel concentrare tutti i poteri, e di imporre un’ideologia unica al paese, tanto la risposta si è rivelata altrettanto radicale e populista.

In seconda istanza, vi è una certa frustrazione nei confronti di un’uscita morbida dal peronismo. L’uscita graduale e rispettosa delle istituzioni, tentata dal centrista Mauricio Macri che ha governato dal 2015 al 2019, non ha funzionato. Quindi, molti argentini che volevano farla finita coi peronisti non credevano più in una via moderata, e hanno scommesso su una via più radicale. Milei infatti, più che un liberale è un anarco-libertario, che è diverso. Si tratta di un liberismo economico estremo, che spesso non ha molta sensibilità per la dimensione politico-istituzionale della liberal-democrazia. Solo il tempo ci dirà quali saranno gli effetti.

Milei ha detto di volersi schierare con gli USA e Israele e contro le autocrazie, come la Cina e il Venezuela. Da cosa deriva questa sua scelta di campo?

Questo non solo fa parte dell’ideologia di Milei, ma va inserito nel più ampio contesto argentino e latinoamericano. Tutta la storia dell’Argentina, e di buona parte dell’America Latina, è attraversata da una profonda tensione: da una parte coloro che si richiamano alla tradizione occidentale, e che quindi pensano che il destino dell’America Latina sia un destino occidentale, vicino al liberalismo e all’economia di mercato. Viceversa, tutti i movimenti populisti e nazionalisti nella storia latinoamericana si richiamano ad un destino di contrasto all’Occidente. Il populismo di Perón, Chávez, Castro e di altre figure analoghe è un populismo che si richiama ad una visione del mondo antiliberale.

Questa spaccatura spiega perché Milei, pur in una versione radicale, richiamandosi ad una visione liberale cerca di ribaltare il paradigma prevalso finora in Argentina: se ad oggi i governi peronisti simpatizzavano per le autocrazie come Cina, Russia, Venezuela e Cuba, Milei stigmatizza questi regimi e viceversa cerca un’alleanza con quei paesi che più rappresentano la visione occidentale. Non a caso, le sue prime visite all’estero saranno negli Stati Uniti e in Israele.

C’è da dire che se un tempo questo richiamo all’Occidente contro le autocrazie era facile da interpretare, oggi è più complesso: quello che definiamo “Occidente” non è così unito, e soprattutto negli Stati Uniti vi è una profonda spaccatura. Un conto è dire di stare con gli Stati Uniti, altra cosa è dire se si sta con Biden o con Trump. E anche in Israele la dialettica politica è molto accesa, non tutti stanno con il governo di Netanyahu.

Nel caso di Milei, basta leggere il discorso che ha tenuto a Davos per capire che sta con Trump, non con Biden; sta con Netanyahu, non con l’opposizione israeliana. La sua idea di Occidente è molto legata a questi fenomeni, critici verso il liberalismo classico e che propongono altri modelli.

Com’erano le relazioni tra l’Argentina e Israele sotto il peronismo? E come potrebbero cambiare durante il mandato di Milei?

In epoca kirchnerista, quindi dal 2003 fino al 2023 escludendo la breve parentesi di Macri, l’Argentina ha sempre avuto una posizione verso Israele che oscillava tra la freddezza e l’ostilità. Al punto che i tribunali hanno accusato l’ex-presidente Cristina Fernández de Kirchner di avere stipulato un patto di impunità con il governo iraniano in merito all’attentato al centro ebraico AMIA del 1994, che causò 85 morti.

A ciò si aggiunge il “mistero Nisman”, ossia la morte che si vuole far passare per suicidio del procuratore Alberto Nisman, che stava investigando su questo patto, ed era pronto a denunciare la Kirchner per collusione con i nemici della nazione. Con Milei, la politica estera del paese cambia radicalmente.

I movimenti che come il kirchnerismo si richiamano alla tradizione del populismo latinoamericano, che combattono il liberalismo e l’Occidente, si sono sempre alleati con quei paesi e regimi che a livello globale si sono configurati come i nemici dell’Occidente. Non a caso, il regime iraniano conta su legami molto stretti con Cuba, Venezuela, Nicaragua, e ne aveva uno anche con il governo Kirchner in Argentina.

Questo non implica necessariamente un pregiudizio antisemita; quello che è sempre importato ai peronisti è che la comunità ebraica argentina, molto numerosa e influente, fosse peronista. Lo stesso Perón, negli anni ’40 e ’50, accettava gli ebrei argentini a patto che fossero peronisti; il problema era quando questi rivendicavano una loro autonomia. La comunità ebraica in Argentina è stata spesso divisa anche in associazioni; una più vicina al peronismo, l’altra più indipendente con tendenze antiperoniste.

Nel suo libro “Il populismo gesuita” (Laterza, 2020), sostiene che le posizioni di Papa Francesco siano influenzate dalla tradizione populista latinoamericana. Quali sono le differenze tra lui e Milei, oggi i due più importanti leader argentini?

Sicuramente Bergoglio è legato al peronismo nella sua formazione. Non perché sia peronista, ma perché nella storia argentina il peronismo è nato come braccio secolare del cattolicesimo politico. Il peronismo in Argentina incarna il mito del trionfo della nazione cattolica sulla nazione liberale. È un legame antropologico tra i due mondi.

Benché Bergoglio abbia sempre coltivato stretti rapporti con la comunità ebraica in Argentina, e con le sue autorità religiose, è sempre stato ostile all’Occidente liberale. Inoltre, c’è sempre stata una tradizione cattolica che vorrebbe Gerusalemme come una città neutrale, divisa tra le tre grandi religioni monoteiste; e per questo, vede negativamente il fatto che sia la capitale d’Israele.

Tutto questo si vede nelle posizioni di Bergoglio, che dopo il 7 ottobre sono state a dir poco ambigue. Il suo tentativo di equiparare l’aggressione di Hamas alla reazione di Israele è coerente con la tradizione del populismo latinoamericano, che vede Israele come un’appendice dell’Occidente.

In questo senso, Bergoglio si differenzia politicamente da Milei, che sta con Israele qualsiasi cosa faccia il governo israeliano. Al tempo stesso, tuttavia, Bergoglio potrebbe intendersi con Milei più di quanto si intese con Macri. Questo perché mentre Macri era disinteressato alla dimensione religiosa, estraneo alle radici cattoliche dell’Argentina, Milei invece coltiva un’identità religiosa. Da tempo annuncia una sua conversione all’ebraismo, e ci tiene ad avere un profilo religioso e spirituale difronte all’opinione pubblica argentina. E se uno legge i suoi discorsi, vi trova costanti richiami al Tanakh.

Milei è un uomo che ricorre a categorie religiose per presentarsi come un inviato di forze metafisiche. Anche per questo, ha raccolto voti tra i poveri, dove i politici laici faticavano a sottrarre spazio alla Chiesa cattolica. Milei c’è riuscito, perché coltiva un’immagine messianica competitiva sul sentiero religioso. Per questo, è probabile che Bergoglio sarà molto prudente con Milei, e cercherà di instaurare con lui un rapporto di collaborazione. Perché vede in lui un avversario molto più temibile di Macri.

In Brasile, sull’elezione di Bolsonaro e le sue posizioni filoisraeliane influenzò molto il crescente elettorato evangelico. In Argentina vi è una situazione simile, o è diversa?

In Argentina le comunità evangeliche sono cresciute enormemente, e hanno sottratto molti fedeli alla Chiesa cattolica. Ma la situazione è ancora lontana dal Brasile, che oggi è un paese a maggioranza non cattolica, cosa che sarebbe stata impensabile fino a vent’anni fa. L’Argentina è ancora un paese prevalentemente a maggioranza cattolica, ma le comunità evangeliche stanno crescendo. Mentre in Brasile le comunità evangeliche sono anche comunità politiche, con una forte identità, in Argentina questa politicizzazione è ancora limitata. Secondo gli studi sull’argomento, non esiste un vero voto evangelico in Argentina, almeno per ora.

In Argentina, come in altri paesi del Sudamerica, vi sono grosse comunità di origine araba, al punto che dal 1989 al 1999 ebbe un presidente di origini siriane, Carlos Menem. Ciò può comportare potenziali attentati o manifestazioni di antisemitismo?

Ci sono pochi studi in merito, purtroppo. In America Latina ci sono diverse comunità arabe, soprattutto di origini siriane, libanesi e palestinesi; vengono chiamati tutti “turcos”, perché iniziarono ad emigrarvi quando ancora c’era l’Impero Ottomano, tra fine ’800 e inizio ‘900. Queste sono presenti in molti paesi: in Cile, Venezuela, Colombia, e anche in Ecuador, dove ci sono stati diversi presidenti di origine libanese.

Più che in Argentina, questo rischio lo vedo in Colombia o in Venezuela; non tanto per il fattore religioso, quanto per affinità politiche con l’Iran, in funzione antioccidentale. L’antisemitismo non proviene necessariamente dalle comunità di origine araba, che da generazioni si sono integrate con anche diverse conversioni al cattolicesimo. Poi l’antisemitismo ha messo radici negli ambiti intellettuali latinoamericani, come vediamo anche nelle accademie occidentali.

Con Milei, potrebbero esserci delle svolte nelle indagini sull’attentato all’AMIA e sulla morte di Nisman?

Diciamo che ci sono dei presupposti favorevoli. Perché non c’è dubbio che la Kirchner abbia fatto di tutto per limitare l’autonomia del potere giudiziario e ostacolare le indagini prima sull’AMIA e poi sugli accordi con l’Iran. Il governo di Milei non ostacolerà in alcun modo le procedure giudiziarie.

Detto ciò, è passato tanto tempo, e le inchieste sono state fortemente inquinate. Molte testimonianze sono state corrotte, e il fatto che ci sia maggiore disponibilità da parte dello Stato non permetterà necessariamente che si arrivi ad un esito positivo.