Gli immigrati africani in Israele: ‘Siamo rifugiati, non criminali’

Mondo

Non accenna a fermarsi la protesta degli immigrati africani in Israele, che da tre giorni sta causando scioperi e manifestazioni a cui partecipano migliaia di persone. Alla base del malcontento degli immigrati – principalmente del Sudan, Eritrea ed Etiopia – la politica di immigrazione israeliana, che, secondo i manifestanti, sta portando  dei rifugiati in cerca di asilo politico a essere rinchiusi nel centro di detenzione di Holot (nel Negev), come se fossero dei criminali.
Domenica 4 gennaio migliaia di africani hanno iniziato uno sciopero dal lavoro, mettendo in seria difficoltà molti servizi – bar, ristoranti, hotel, imprese di pulizia – in cui la maggior parte degli immigrati è impiegata. Inoltre, in 20.000 hanno marciato da Levinksy Park fino a Kikar Rabin, dove hanno manifestato urlando “Sì alla libertà, no alla prigione” e “siamo rifugiati, non criminali”.  Mentre il giorno seguente circa 5.000 sudanesi ed eritrei hanno dimostrato fuori dalle ambasciate straniere di Usa, Francia e Gran Bretagna a Tel Aviv, chiedendo di fare pressioni su Israele affinché li riconosca come rifugiati, smetta di arrestarli e liberi quelli già chiusi a Holot in condizioni di veri prigionieri. Israele, sostengono, è obbligato a onorare la Convenzione dei Rifugiati dell’Onu e a dare la giusta considerazione a tutte le richieste di asilo. Lo stesso giorno, 130 migranti del centro di detenzione di Saharonim, nel Negev, hanno iniziato uno sciopero della fame.

“Nelle proteste dei giorni scorsi, gli scioperanti hanno ripetuto un messaggio – si legge in un comunicato rilasciato dai manifestanti -. Non potete imprigionarci come se fossimo dei criminali. Siamo determinati a continuare una battaglia non violenta per i prigionieri, a cancellare la legge sull’infiltrazione, a fare esaminare in maniera corretta le nostre richieste di asilo e avanzare i nostri diritti fondamentali”.

Le manifestazioni hanno causato la reazione dei rappresentanti dell’UNHCR in Israele, che hanno pubblicato un comunicato stampa, intitolato “Le nuove leggi e politiche di Israele  non rispettano lo spirito della Convenzione dei rifugiati del 1951”, in cui si invitava lo Stato Ebraico a considerare delle alternative all’attuale politica di ricezione degli immigrati.

Dal canto suo, il governo ha dichiarato di non avere intenzione di cambiare la propria politica nei confronti degli immigrati e insiste che molti di essi non sono rifugiati politici, ma illegali entrati nel Paese per cercare lavoro, e non, invece, vero asilo politico.

“Le proteste e gli scioperi  non aiuteranno – ha dichiarato domenica il Primo Ministro Beniamin Netanyahu nella sua pagina Facebook -. Abbiamo completamente arrestato le infiltrazioni di clandestini in Israele e ora siamo determinati a respingere quelli che sono riusciti a entrare nel paese. L’anno scorso abbiamo aumentato di sei volte il numero di immigranti che hanno lasciato il paese – circa 2600 – e quest’anno puntiamo a fare ancora di più”.

Ma intanto la protesta va avanti, e minaccia di arrivare anche a Gerusalemme: giovedì 9 gennaio, infatti, se saranno concessi i permessi,  gli immigrati faranno una lunga marcia da Levinsky Park di Tel Aviv a Gerusalemme.