Migranti, c’è anche una questione israeliana

Israele

di Aldo Baquis

«Ci sentiamo sotto occupazione, prigionieri a casa nostra. La polizia ormai esita ad entrare nei nostri quartieri. Siamo esposti a possibili attacchi di immigrati africani, a volte anche ubriachi. Le notti sono ricche di incognite, e i nostri anziani preferiscono allora chiudersi in casa»: queste le voci che giungono sempre più di frequente dagli abitanti di rioni proletari a Tel Aviv, o ad Arad, o a Eilat, dove più tangibile è la presenza di immigrati clandestini dall’Africa.

Per lo più provengono dal Sudan o dall’Eritrea. In genere sono arrivati al termine di una lunga marcia, durante la quale hanno attraversato l’Egitto e il deserto del Sinai. Molti hanno alle spalle storie traumatiche: sono stati rapiti da bande di beduini del Sinai, che hanno imposto il pagamento di un riscatto.

In base alle convenzioni internazionali, Israele ora non li può rimandare nei loro Paesi di origine (specialmente in Sudan e in Eritrea, dove rischiano di essere passati per le armi), e Paesi terzi non si offrono di accoglierli. Organizzazioni umanitarie suggeriscono di sparpagliarli in zone diverse del Paese e di utilizzarli come forza lavoro: nei campi, negli alberghi, nelle pulizie domiciliari o nell’edilizia. In questo modo, si afferma, non sarebbero costretti di fatto a trascorrere le loro giornate in strada e non sarebbero sospinti verso una vita di espedienti che include anche piccoli furti (telefonini, biciclette, ecc.) per mantenersi in vita.

Ma un’occhiata alle statistiche degli ingressi, negli anni scorsi, ha destato a Gerusalemme grande allarme. Più in Africa si spargeva la voce che in Israele era stato trovato il modo di guadagnare, sia pure con difficoltà, cifre concrete, più il numero dei nuovi migranti cresceva: e a ritmo geometrico.

Israele è l’unico Paese occidentale che possa essere raggiunto via terra dall’Africa. Per “tamponare la falla” il premier Benyamin Netanyahu ha dunque ordinato la costruzione in tempi serrati di un reticolato lungo 250 chilometri, in terre aspre e scoscese, fra il Sinai egiziano ed il Neghev. L’opera è stata completata all’inizio di quest’anno. Poi sono state approvate nuove leggi che vietano agli israeliani di dare lavoro ai migranti e che proibiscono a questi ultimi di spedire fondi all’estero.

Infine, a giugno, è stato approvato un emendamento che prevede la reclusione fino a tre anni per chi sia entrato in Israele clandestinamente. Un provvedimento “molto sgradevole”, hanno ammesso gli stessi legislatori: ma concepito allo scopo di “arginare la marea”, di dissuadere legioni di nuovi aspiranti migranti dal mettersi in marcia verso la Terra Promessa.

In queste condizioni, a settembre, è giunta però la perentoria decisione della Corte Suprema di Gerusalemme di considerare incostituzionale quell’emendamento. Con parole severe, i giudici hanno stabilito che una legge del genere non ha diritto di esistere in Israele: non si concilia con le sue leggi fondamentali, offende il diritto basilare dell’uomo alla libertà e alla dignità, in ogni modo non ha alcuna proporzione con quanto addebitato ai migranti.

Per le organizzazioni locali che si battono per la difesa dei diritti civili (Acri, Amnesty International) è stata una giornata di tripudio: nella storia di Israele solo altre dieci volte la Corte Suprema aveva bacchettato così duramente il parlamento.

I partiti della destra nazionalista hanno invece biasimato i giudici. Secondo il ministro dell’edilizia Uri Ariel (Focolare ebraico), la Corte Suprema ha di fatto «legato le mani al governo nella sua lotta contro l’immigrazione illegale».

Analoga la sensazione dell’ex ministro degli interni Eli Yishay (Shas) secondo cui quel drastico emendamento da lui fortemente voluto – ossia i tre anni di reclusione – aveva essenzialmente uno scopo di deterrente. «Adesso masse di africani si metteranno in moto verso Israele», ha avvertito. «Vogliamo proprio che entrino? Sarebbe la fine dello Stato ebraico. Non possiamo suicidarci nel nome della democrazia».

Alla sentenza della Corte Suprema – che ha ordinato al parlamento di elaborare una nuova legge sull’immigrazione ispirata a principi più umani – sono seguite manifestazioni di protesta nei rioni dov’è più marcata la presenza degli africani. «I sudanesi la fanno da padroni», hanno lamentato quegli attivisti «Qui regna la violenza, abbiamo paura. Se i giudici di Gerusalemme avessero trasferito i loro uffici qua per soli tre giorni, si sarebbero espressi diversamente».

Secondo le stime ufficiali, in Israele vivono adesso 60-70 mila immigrati clandestini provenienti dall’Africa. Malgrado le accese proteste delle organizzazioni per i diritti civili, Netanyahu cerca di rimpatriarli: se non nei Paesi di origine, in altri Paesi africani che sarebbero disposti ad accoglierli in cambio di aiuti economici (e forse anche militari) di Israele.

I severi moniti giunti dai nove giudici della Corte Suprema sono stati registrati dal governo di Netanyahu, che adesso opera alla Knesset per elaborare un nuovo emendamento alla legge sull’immigrazione. Ma la politica del governo israeliano – ha chiarito il premier alla Knesset ad ottobre – non cambia. «Noi – ha esclamato con orgoglio – siamo riusciti a bloccare del tutto il fenomeno dell’immigrazione (dall’Africa, ndr). Negli ultimi sei mesi il numero dei migranti entrati in Israele è stato ‘zero’. Israele è l’unico Paese occidentale che è riuscito ad assumere il controllo sull’immigrazione illegale attraverso i propri confini: un fenomeno – ha avvertito – che avrebbe messo in pericolo il carattere ebraico e democratico del nostro Paese».

In anni passati gli immigrati, secondo Netanyahu, giungevano al ritmo di 3.000 al mese. Poi si è arrivati anche a 6.000: dunque si stavano raggiungendo cifre da 80 mila immigrati all’anno. «E se questo fenomeno fosse proseguito indisturbato per un decennio, cose ne sarebbe stato di noi?» ha retoricamente chiesto ai deputati della Knesset.

Il suo governo non si accontenata di aver per ora fermato la falla, ma opererà – ha promesso – per espellere quanti sono riusciti ad entrare illegalmente in Israele. «Mi rendo ben conto delle sofferenze patite dagli abitanti dei quartieri popolari di Tel Aviv sud, e di altre zone in Israele. Prima di completare la Barriera sul Sinai mi sono recato a Eilat, ho incontrato la gente là e piangevano: davvero, piangevano. Allora prometto che così come abbiamo fermato i migranti in arrivo, espelleremo quelli che sono già qua».

Il suo governo, ha anticipato, ricorrerà ad un insieme di leggi economiche e di attività internazionali “energiche”, corredate dalla costruzione di “campi di accoglienza” (vere e proprie prigioni allestite anche in zone remote e poco ospitali, come a Ketziot nel Neghev). Da un lato, ha garantito Netanyahu al parlamento, le linee guida della Corte Suprema saranno rispettate. Ma dall’altro, Israele non intende rinunciare al controllo totale sui propri confini.