Un appuntamento importante

Italia

I sentieri della cultura. di Renzo Gattegna

L’VIII edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica giunge in un momento felice nella breve storia di questa iniziativa che, con il passare degli anni e delle edizioni, è diventata per oltre quarantamila visitatori un piacevole appuntamento.
La giornata sta trovando una sua specifica connotazione e sta allargando il numero dei suoi sostenitori e frequentatori. Rispetto ad altre iniziative, sta rafforzando un suo sapore fresco, dinamico, moderno, che trova il suo perfetto quadro di riferimento nella dimensione continentale europea. Il sostantivo che più si addice a questa giornata – caratteristica che accomuna i partecipanti – è la “curiosità”. Ci troviamo sempre più coinvolti nella sfida di scoprire luoghi e aspetti nuovi, o di ritrovare valori antichi e dimenticati, dell’ebraismo italiano, di percorrere nuovi sentieri e itinerari e di trovare le parole che ci avvicinano a pensieri, tradizioni, contenuti, cultura. Questo ci affascina e ci stimola a continuare in questo percorso.
Allo stesso tempo emerge sempre più insistente la domanda dei più giovani, ma non solo, di concentrare la nostra attenzione sull’ebraismo del futuro. I grandi avvenimenti del secolo scorso, che stanno trovando una loro collocazione, ormai stabile, nella storia e nel pensiero del popolo ebraico, richiedono uno sforzo di “equilibratura” rispetto al contesto generale.
Questi eventi epocali hanno indirizzato, condizionato e arricchito la vita e i comportamenti della nostra generazione, che li ha vissuti in prima persona, ma dei quali dobbiamo evitare di subire il fascino monopolizzatore.

La Giornata Europea della Cultura Ebraica ci offre ogni anno un’occasione unica: aprire le porte, facilitare l’accesso e le visite ai luoghi della nostra storia e, al tempo stesso, far conoscere i diversi aspetti delle tradizioni e della cultura ebraica, far conoscere l’ebraismo e gli ebrei italiani per quello che sono realmente, con la loro vivacità culturale e intellettuale. L’apertura del mondo ebraico verso coloro che vogliono conoscerlo e studiarlo produce un “effetto collaterale” entusiasmante. Riscontriamo una caduta verticale del pregiudizio ogni volta che troviamo il coraggio di abbassare le nostre difese e permettiamo a quanti lo desiderano di conoscere la cultura ebraica, elemento fondante delle religioni monoteistiche, che è nelle radici e nella storia della civiltà occidentale e del medioriente.
Siamo lieti di offrire nuovamente questa opportunità il prossimo 2 settembre.

La magia della parola di Sira Fatucci

“Nell’umile sinagoga della mia città natale di Aïn Témouchent, in Algeria, i dieci Comandamenti erano scritti a lettere d’oro su due tavole di legno di quercia appese sopra l’armadio che conteneva i rotoli della Torah. Come tutti gli altri bambini ebrei, imparavo a memoria le dieci Parole centrali, le cui 620 lettere ebraiche, disposte su due colonne allineate, danzavano davanti ai miei occhi, affascinandomi. Rimanevo estasiato di fronte a quelle dieci Parole che riassumono tutto ciò che l’uomo può comprendere e auspicare per l’universo”. (1)

I dieci comandamenti, retaggio di tutta l’umanità, sono la testimonianza per eccellenza che l’ebraismo ha lasciato nelle culture con le quali ha interagito nel corso dei secoli. Nell’Esodo (20:1) il termine usato per presentare i comandamenti è “davar”, termine ebraico per “parola”. In ebraico i dieci comandamenti sono quindi le “dieci parole”.

Il testo biblico non possiede vocali, e non vi è punteggiatura. Le vocali sono quindi una aggiunta successiva. Tutti i termini generalmente sono composti. La radice DVR (alla base della parola “davar”) è costituita dalle consonanti daleth, beth e resh.

I maestri hanno insegnato che la Torah ha settanta volti (“Shivim panim leTorah”); ogni parola può avere settanta significati: la parola può essere trattata come una roccia da cui, al solo colpirla, scaturiscano infinite scintille. Più la si batte, più scintille scaturiranno. E battendo ancora la parola, altre scintille, forse meno sacre ci fanno trovare che nell’antico dialetto giudaico-romanesco l’incitazione a “fare davar” diviene, in maniera apparentemente paradossale, l’invito a tacere, a non fare parola. In ebraico moderno “Ein davar” significa “non c’è di che”, “non importa”.

E, a furia di essere battuta, la radice DVR con un cambio di vocali, quasi come per una magia cattiva può assumere un significato del tutto diverso: “Davar”, la parola, quando non viene ascoltata può divenire “dever”, la peste, una delle dieci piaghe bibliche. O una scintilla remota può tramutare la radice DVR fino a farla diventare Dvir, il luogo più interno del Bet HaMikdash, il Tempio di Gerusalemme sulle cui vestigia ancora oggi si prega e ci si commuove, e tra le cui pietre si infilano biglietti di preghiera e di supplica, recanti le diverse parole degli uomini.

La parola viene data da Dio nel luogo per definizione in cui non viene udita alcuna voce: il deserto, in ebraico “midbar”, formato dalle stesse consonanti DVR, con un M che non fa parte della radice, e che evoca in genere, in inizio di parola, la preposizione “da”. Uno stimolo per una riflessione: nel luogo preposto al silenzio, proprio lì il silenzio di Dio si interrompe e la Sua parola si manifesta.

Per sottolineare percorsi di cultura ideali, e che ognuno può costruire per sé nella maniera che gli è più affine (così come le lettere dell’alfabeto ebraico possono unirsi in maniere sempre diverse a costituire un’infinità di radici), per questa ottava edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica abbiamo voluto utilizzare, come una suggestione piena di vita e di colore, lettere disegnate dall’artista Emanuele (“Lele”) Luzzati, recentemente scomparso. Parole che in questa nostra manifestazione si accompagnano ai sentieri, ad indicare un percorso ideale in continuo facimento parole che, in una giornata che speriamo particolare, ambiscono a venire a far parte, assieme a tutte le altre, del piccolo “tesoro” di parole proprie che ciascuno di noi porta con sé.

Una storia di parole di Lia Tagliacozzo

Le parole, le espressioni della lingua percorrono sentieri, si muovono, travasano dai contesti che le hanno partorite e viaggiano fino a emanciparsi dal loro significato originario. Percorrere a ritroso questi sentieri, indagare il loro inerpicarsi per la vita delle genti che tale lingua parlano e usano significa tracciarne la vicenda, indagare il loro conoscersi e intrecciarsi, scoprire le vie dell’incontro e, a volte, della sopraffazione o della scomparsa.

Nella lingua italiana esiste un’espressione che ben racconta i viaggi delle parole, si tratta di vocaboli comuni che rimandano ai panni stesi al vento e al sole della buona stagione incipiente, alla frenesia di donne che rinnovavano l’entusiasmo per la primavera e per il nuovo ciclo vitale che si rinnova allo spuntare dei germogli e al prolungarsi delle giornate: “pulizie di Pasqua” infatti è espressione innocua e innocente che narra anche della capacità degli usi, e delle parole che li descrivono, di raccontare un incontro. Con l’arrivo della primavera infatti gli ebrei di tutto il mondo si apprestano alle “pulizie di Pesach”, Pasqua appunto, per togliere tutto il cibo lievitato dal loro possesso, dalle case e dalle cucine, dalle tasche dei pantaloni e dalle stanze dei bambini. In ricordo della biblica fuga degli ebrei dall’Egitto, quando nella fretta non fecero in tempo a far lievitare il pane, per otto giorni è necessario eliminare qualsiasi tipo di cibo lievitato.

Così la memoria dell’attraversamento del Mar Rosso, del passaggio dalla schiavitù alla libertà si rinnova nei gesti quotidiani di pulizie attente, magari all’apparenza maniacali, nella primavera che entra in casa dopo gli odori, i fumi e i freddi dell’inverno. Ma, come spesso accaduto agli ebrei, anche l’espressione “pulizie di Pesach” ha migrato e si è trasformata nelle italianissime “pulizie di Pasqua” o “pulizie di primavera” diffusissime nella pratica del nostro Paese almeno fino agli anni cinquanta.

Ma nel ripercorrere i percorsi della lingua vale volgere l’attenzione a coloro attraverso i quali la lingua diviene letteratura per alcuni e lettura per molti: gli scrittori dunque, e scrittori ebrei. Ma l’albero delle parole a volte non basta perché definire ebreo uno scrittore necessita di parametri complessi e, a volte, sfuggenti. E altrettanto complesso è aggettivarne l’opera. La definizione si può applicare a molti criteri diversi e sembra più facile proporla per associazione di idee o per riflessioni concentriche: così è necessariamente scrittrice o scrittore ebreo colei o colui che scrive in ebraico (caso raro in Italia), o scrive di cose ebraiche, è ebreo per nascita, frequenta la sinagoga, e reca comunque traccia nel proprio lavoro, nelle proprie parole, di quel mondo e di quella cultura come storicamente dispiegatasi. Difficile quindi attribuire aggettivi resta che, comunque la si voglia definire, la presenza “ebraica” nella letteratura italiana contemporanea è massiccia numericamente, importante qualitativamente e diffusa nella cultura dei lettori del nostro Paese.
Una definizione possibile è quella offerta da Giorgio Bassani in alcune pagine del Giardino dei Finzi Contini: l’ebraismo, scriveva, era “qualcosa di più intimo” e, ribadiva anche De Benedetti, “si è spesso trattato di faccende di stretta intimità”.

A tentare almeno alcuni nomi si incontrano autori che hanno contribuito a scrivere il nostro novecento: da Italo Svevo a Umberto Saba, da Alberto Moravia, a Carlo Levi , da Natalia Ginzburg, a Giorgio Bassani, Primo Levi, Alberto Vigevani, Arturo Loria, Antonio e Giacomo De Benedetti, Alberto Lecco, Edith Bruck. Poi i fratelli Giorgio e Nicola Pressburger. Si tratta di autori che vengono citati in ordine sparso, né per importanza, né per alfabeto; vale solo, forse, suggerire un criterio geografico: non esiste un solo ebraismo italiano, esistono gli ebrei di Torino e quelli di Roma, quelli di Trieste e quelli di Ferrara, ma anche quelli di Egitto o di Libia.

Ma l’elenco, per disordinato che sia, non si ferma qui, prosegue con la riflessione intorno al tema della Shoah, la distruzione degli ebrei nella seconda guerra mondiale ad opera del nazifascismo, con la ricostruzione di vicende familiari, con i racconti per bambini, con racconti di cultura ebraica tradizionale e le vicende del novecento: Miro Silvera, Giacoma Limentani Aldo Zargani, Giulio Levi, Lia Levi, Clara Sereni, Alain Elkann, Elena Loewenthal, Moni Ovadia, Riccardo Calimani, Stefano Jesurum, Eraldo Affinati; ma anche i “giovani” come Victor Magiar, Anna Segre, Daniel Fishman, il venticinquenne Shulim Vogelmann, fino al fenomeno editoriale del 2005, le pluri-stampate Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno.

Ma si aprono, come raccontato da Laura Quercioli Mincer in “Per amore della lingua, incontri con scrittori ebrei”, altre occasioni di riflessione ed indagine, alcuni tra gli ultimi autori citati infatti “hanno trovato nel nostro paese un approdo e nell’italiano la lingua con cui dar voce alla distanza, alla nostalgia, spesso alla sofferenza di oltraggi subiti”. E conclude: “Il dialogo tra particolare e universale che attraversa tutta l’esperienza ebraica trova negli scritti e nelle parole di questi autori una sua naturale armonia discorsiva. Osserviamo qui quella sorta di movimento ondivago di andata e ritorno dal locale al generale che sembra essere l’unico in grado di garantire, allo stesso tempo, il rispetto del singolo e la prospettiva comunitaria e collettiva: in altre parole, quella dose di compromesso e di mediazione indispensabile alla convivenza”.
Una convivenza fatta di incontri, anche tra parole, che raccontano un piccolo viaggio: come quello compiuto dalle “pulizie di Pesach” per diventare “pulizie di Pasqua”.

“Sentieri” che sarà possibile percorrere durante la Giornata europea della Cultura ebraica, il 2 settembre.

Per i programmi della Giornata europea della Cultura ebraica in Italia visitate il sito Ucei, per i programmi in Europa visitate il sito Jewish Heritage