Straniero, vattene! Israele si spacca sull’espulsione dei migranti

di Aldo Baquis, da Tel Aviv

Sono circa 40 mila i migranti africani oggi in Israele che a fine marzo, per legge,  dovranno scegliere tra le carceri israeliane o l’espulsione in Ruanda.
Clandestini e illegali che, per il governo Netanyahu, destabilizzano l’equilibrio socio-demografico del Paese, andando a ingrossare le periferie proletarie delle città.
Eppure, ribattono gli imprenditori, i migranti sono una preziosa forza lavoro necessaria  al boom turistico ed economico di oggi.
E mentre si risvegliano le memorie della Shoah, un Israele lacerato si guarda allo specchio

 

Hanno avuto due mesi di preavviso. Alla fine di marzo migliaia di migranti sudanesi ed eritrei, – entrati illegalmente negli anni passati -, dovranno compiere una scelta di importanza critica: partire verso un futuro molto incerto in Ruanda, oppure essere incarcerati in Israele a tempo indeterminato. Nelle stesse settimane, gli israeliani saranno obbligati a compiere uno sforzo di introspezione: chiudere i cuori di fronte a quegli sfortunati (nella consapevolezza di non poter comunque rappresentare una zattera per la moltitudine di disperati in fuga dal continente africano), oppure accogliere con calore quelli che già sono a Sion: con quel calore appunto di cui erano vanamente in cerca – pur con le enormi differenze storiche del caso – gli ebrei perseguitati del secolo scorso.
Nei primi mesi del 2018 Israele si è reso conto di avere ancora un nervo scoperto.

Lo scontro politico si è infuocato. La maggioranza ha assecondato la politica del governo. La minoranza è invece uscita allo scoperto, con insolita combattività, proponendo anche forme di disobbedienza civile pur di sabotare le espulsioni. I migranti africani sono oggi 35 mila, a cui si aggiungono 5.000 bambini nati in Israele. Israele afferma di aver raggiunto un accordo con un “Paese terzo” che si dice pronto ad accogliere quanti lasceranno lo Stato ebraico. Per motivi di sicurezza, nessun funzionario governativo rivela quale sia lo Stato africano. La stampa non ha dubbi: si tratta del Ruanda (il Paese ripresosi dopo il genocidio dei Tutsi nel 1994) di Paul Kagame, che ancora di recente ha incontrato a Davos il premier Benyamin Netanyahu.
Le autorità di Kigali negano però che esista un accordo formale con Israele. Avvertono che comunque non accoglierebbero chi fosse espulso contro la propria volontà.
Nei confronti dei migranti la burocrazia israeliana ha fatto prodigi di creatività. Non precisa mai quale sarà la meta del loro viaggio. Parla di “partenze volontarie’’, decise dai migranti stessi sulla base di “incentivi economici’’ (3500 dollari a testa a chi parte, più il biglietto aereo). Alle Ong che protestano, il governo replica che si tratta di un normale “allontanamento’’ di “infiltrati illegali’’. Quanti di loro pensano di aver diritto ad essere riconosciuti come profughi, viene assicurato, possono sottoporre domande: ma finora solo 12 sono stati riconosciuti come tali. Gli uffici sono spesso chiusi. Le code interminabili. Le pratiche languiscono.

Se attorno ai migranti c’è in Israele una palpabile ostilità (e il 66 per cento degli israeliani ritiene necessarie le espulsioni), lo si deve anche alla politica del governo. Giunti in anni passati a piedi dopo aver attraversato il Sinai, i migranti sono stati indirizzati verso i rioni poveri di Tel Aviv, dove presto si sono manifestate frizioni con la popolazione locale già afflitta da problemi di povertà e di devianza sociale. Per arginare il fenomeno all’origine, Netanyahu ha ordinato la costruzione di una barriera sul Sinai che ha effettivamente bloccato gli ingressi illegali. Ha anche provveduto a rendere duro il soggiorno dei migranti. In teoria avrebbero potuto essere dispersi in Israele ed integrati nell’economia. Ma il timore era che l’esperimento riuscisse troppo bene, che inviassero i guadagni ai familiari all’estero e che Israele – unico Paese occidentale raggiungibile via terra dall’Africa – si trasformasse suo malgrado “in un ufficio di collocamento per il Terzo mondo’’.
Adesso il governo vuole chiudere la questione.

I primi ordini di espulsione per il momento riguardano gli scapoli, per lo più originari dell’Eritrea. Ci sono anche esenzioni: i nuclei familiari, gli anziani, i malati gravi, e quanti hanno sottoposto la richiesta di essere riconosciuti come profughi. Così è iniziato lo step della logistica: si assumono guardiani che saranno incaricati di rintracciare i migranti da espellere; si prevede che una parte di loro preferirà la reclusione; si preparano attendamenti. E qui – volente o nolente – è venuta a galla la memoria storica ebraica. Il pensiero di dover assistere a retate nelle strade di Tel Aviv ha fatto perdere il sonno ad alcuni superstiti della Shoah. Noti scrittori – Amos Oz, David Grossman, A.B. Yehoshua e decine di altri – hanno sottoscritto documenti di protesta. Alcuni piloti dell’El Al hanno preannunciato che non guiderebbero aerei con dentro gli espulsi, nel timore che una volta in Ruanda “sarebbero mandati alla morte’’. Nei kibbutzim si è organizzata una rete pronta a “nascondere’’ chi avesse ricevuto il foglio di via. Nei rioni proletari di Tel Aviv queste iniziative sono state accolte con toni amaramente beffardi: “Perché avete aspettato così tanto? – è stato chiesto con ironia. – Chi vi impediva di ospitarli finora?”. Nelle strade che circondano la vecchia stazione degli autobus di Tel Aviv, di notte, regna la paura. La presenza degli africani è quasi assoluta. Le intimidazioni ai passanti non sono rare. A volte sono denunciate violenze, e in casi estremi anche molestie sessuali. Col calare delle tenebre, le donne del quartiere non si avventurano più da sole in strada. E la polizia esita ad intervenire. Gli attivisti anti-immigranti hanno aperto su internet un count-down: “52 giorni alla espulsione, 51, 50…’’. La partenza degli uni sarà una liberazione per gli altri.

Fra i sostenitori del governo e gli oppositori, si profila intanto una terza posizione. È quella degli imprenditori secondo cui, conti alla mano, sarebbe possibile immaginare una politica molto diversa. Diecimila migranti sono impiegati oggi in caffè e ristoranti, altrettanti in lavori di pulizia. Duemilacinquecento lavorano in alberghi, altrettanti nel settore edile. La loro improvvisa partenza provocherebbe scompensi, proprio mentre l’industria turistica è in fase di espansione, anzi in pieno boom. Senza di loro si dovrebbero chiudere cucine e stanze da letto. Dovrebbero essere sostituiti in tutta fretta da filippini, cinesi o anche palestinesi. Inoltre i costi dell’espulsione di massa sono notevoli: secondo notizie non confermate Israele pagherebbe al Ruanda 5.000 dollari a testa per ogni migrante accolto (oltre ai 3500 dollari versati direttamente).

Nella centrale Rehov ha-Hashmonaim di Tel Aviv, all’incrocio con Rehov Carlebach, il cartello dice: “Help – aiuto, Questa espulsione uccide”

I voli, i campi di detenzione: anch’essi costano. Gli impresari suggeriscono allora di fornire ai migranti che già sono in Israele, l’opportunità di inserirsi legalmente nel mercato del lavoro, anche in settori finora loro preclusi come edilizia e agricoltura. Le loro famiglie potrebbero allora disperdersi per il Paese e permettersi una vita decorosa. I quartieri proletari di Tel Aviv si svuoterebbero così delle presenze degli indesiderati e le centinaia di milioni di shekel risparmiati dal governo potrebbero essere investite per il loro rilancio sociale ed economico di quelle aree. Inoltre: se il mercato del lavoro in Israele oggi presenta un tasso di disoccupazione appena del 3,7 per cento (è davvero basso), i dati relativi agli stranieri sono i seguenti: per i migranti africani si parla di 37-40 mila persone. Lavoratori stranieri con regolare contratto: 88 mila. Lavoratori stranieri illegali: 18 mila. Turisti con visti di soggiorno scaduti: 74 mila. Inoltre, mentre i sudanesi sono prevalentemente islamici, gli eritrei sono in prevalenza cristiani (sono la maggioranza dei migranti)
Tuttavia, una delle motivazioni addotte dal governo per una scelta così dura e drastica è il timore che migranti per lo più musulmani possano destabilizzare il Paese e i suoi equilibri demografici. Ma è davvero così? E se così fosse, perché metà del Paese la pensa diversamente?

Per il momento il governo Netanyahu – una coalizione di partiti nazionalisti e religiosi – privilegia l’aspetto ideologico. La questione dei migranti viene infatti vista anche come una sorta di cavallo di Troia che sarebbe manovrato ad arte da Ong internazionali per scardinare il carattere ebraico di Israele. Le proteste delle ultime settimane sarebbero state finanziate dall’estero – secondo Netanyahu -, anche dal miliardario ebreo George Soros, il magnate e imprenditore celebre per le sue posizioni liberal e progressiste. Sospetti simili sono stati espressi anche dalla ministra della giustizia Ayelet Shaked.
Con questi umori politici, con il sostegno massiccio della popolazione, e con la crescente euforia nei rioni poveri di Tel Aviv (un bastione del Likud) il governo di Netanyahu appare dunque determinato ad andare fino in fondo. Per i migranti africani, il Ruanda è sempre più vicino.