Oltre le apparenze, la soap haredì

Israele

di A. B.

Se Avoda Aravit è la sit-com (in lingua araba, trasmessa dal canale israeliano Channel 2) in cui, attraverso le avventure tragicomiche di due famiglie, una palestinese e l’altra israeliana, residenti nello stesso condominio di Gerusalemme Ovest, si affronta metaforicamente il tema della convivenza possibile, Shtisel è la soap opera che, in maniera altrettanto forte, mira a demolire gli stereotipi sugli ebrei ortodossi.

C’è il giovane insegnante ortodosso che, di nascosto, coltiva la passione per la pittura – arte molto sconsigliata (e persino detestata) dai rabbini maestri di dottrina; e c’è anche la vedova timorata che si sente sola e che il venerdì sera, di nascosto, ascolta la musica con gli auricolari, in aperta trasgressione del riposo sabbatico. Il tutto fa da contorno alla storia d’amore che si sviluppa del rione ultraortodosso di Mea Shearim a Gerusalemme, fra i due giovani Akiva ed Elisheva.

Le 12 puntate della serie televisiva israeliana Shtisel sono diventate ormai un cult in Israele.

Visti di sfuggita, incontrati fugacemente per strada o sull’autobus, Akiva ed Elisheva sembrerebbero l’incarnazione degli stereotipi che gli israeliani laici hanno degli ortodossi.

Ma quando si impara a conoscerli, le idee preconcette crollano come castelli di carte. E il serial Shtisel adesso raggiunge un altissimo share.

Le centinaia di migliaia di ortodossi che vivono e si moltiplicano in Israele rappresentano per la maggioranza laica un paradosso: sono al tempo stesso molto vicini fisicamente, ma molto lontani psicologicamente, per il loro stile di vita modellato su regole cristallizzatesi nell’Europa orientale di due-tre secoli fa.

La soap opera, prodotta da ex studenti di collegi rabbinici, consente all’israeliano laico di guardare alla routine delle enclave ortodosse dall’interno e di coglierne le sfumature più delicate, le pulsioni, e anche l’umorismo, intriso di quella cultura yiddish che per Ben Gurion era espressione della Diaspora, della ghettizzazione subita in Europa lungo i secoli, e come tale dunque da estirpare.

Al centro della storia, l’anziano insegnante Sholem Shtisel, vedovo da un anno, logorato dal tempo, che vorrebbe vedere finalmente accasato anche il figlio minore, Akiva. Le regole della società imporrebbero un matrimonio combinato: con il suo lignaggio sociale, Akiva potrebbe aspirare ad una ortodossa giovane, di bell’aspetto. Ma Cupido è in agguato e Akiva si invaghisce invece di Elisheva, due volte vedova e con un figlio a carico. Le sue “quotazioni” sociali, nel mercato delle future spose, sono molto basse. «È come una cotoletta riscaldata», è lo sprezzante commento del rabbino Sholem.

Per interpretare questo ruolo da “cotoletta riscaldata”, l’attrice israeliana Ayelet Zorer è giunta appositamente da Hollywood, dove spesso lavora: ha percorso cioè anni-luce per immedesimarsi nel personaggio. «Questa storia d’amore ha un che di letterario – ha poi osservato in un’intervista -. Unisce aspetti veri a momenti non tanto realistici».

La critica non le lesina elogi. Sholem è interpretato dall’attore comico Dov Glickman. «La cosa più difficile è stato farmi crescere la pancia – spiega -. Ogni volta ci voleva un’ora per indossare gli abiti e per applicarmi la barba, con una colla tenacissima di formula segreta». Glickman precisa di non essersi immerso nella società ortodossa prima delle riprese. «Del resto – nota con umorismo yiddish – non credo che sarei andato a frequentare principi danesi se mi avessero offerto il ruolo di Amleto…».

La serie è rivolta in primo luogo al pubblico laico, perché gli ortodossi non dovrebbero avere in casa apparecchi televisivi, bollati dalle loro guide spirituali come strumenti di perdizione. Ma Shtisel incrina anche questo stereotipo. Trasferita in una casa di riposo, la madre ottantenne di Sholem, incurante dell’imbarazzo del figlio rabbino, si fa infatti installare un televisore per la prima volta nella sua vita. Sarà sedotta dalle soap-opera e anche dai western dove, spiega con tono didattico, «vi sono tanti ragazzi a cavallo che hanno cappelli da rabbini: eppure – nota sbigottita – sono malvagi, e perfino sparano».