La terra trema? È ora di un altro caffè

Israele

di A B.

Pur abituati a vivere in una zona di alta instabilità, gli israeliani ricorderanno probabilmente l’estate-autunno 2013 come una concatenazione di sviluppi vorticosi e disorientanti. L’Egitto è in fiamme; la Siria ormai forse non può essere considerata più come uno Stato vero e proprio; il Libano è a due passi dal baratro di una nuova guerra civile. Invece in Israele e nei Territori prevale la calma. Precaria, forse: ma pur sempre un’invidiabile quiete.

Centinaia di migliaia di israeliani hanno dato in queste settimane l’assalto all’aeroporto Ben Gurion per lanciarsi verso le meritate vacanze estive. E anche in Cisgiordania si respira un’atmosfera nuova. In occasione del Ramadan centomila palestinesi hanno trovato i valichi militari spalancati per loro e si sono concessi una vacanza in Israele: magari dai parenti, in Galilea o nel Neghev, oppure sulla ridente spiaggia di Tel Aviv, che con i suoi caffè e i suoi locali notturni è comunque il surrogato di un viaggio all’estero. Predicatori islamici li hanno bacchettati rilevando che il Ramadan è stato concepito per pregare, non certo per svagarsi. Sarebbe stato meglio, hanno aggiunto, genuflettersi in preghiera nella Moschea di al-Aqsa, a Gerusalemme. Eppure le masse, a quanto pare, hanno optato per Tel Aviv.

EGITTO ALLA SVOLTA

Abdel Fatah al-Sisi sembrava un militare opportunista. A sceglierlo come Capo di stato maggiore delle forze armate era stato il presidente islamico Mohammed Morsi. Doveva sostituire il vetusto generale Tantawi, presunto sostenitore del vecchio regime di Hosni Mubarak. Ma a fine giugno al-Sisi ha messo Morsi agli arresti, ha affrontato nelle piazze per settimane le manifestazioni di protesta dei Fratelli Musulmani, e ha fatto arrestare i capi di quel movimento. Poi ha anche rilasciato Mubarak.

I suoi servizi segreti gli hanno detto, fra l’altro, che fra i Fratelli Musulmani e i dirigenti di Hamas a Gaza c’è molto più che una ovvia affinità politica, ideologica e religiosa. Gli hanno detto che c’era anche una preoccupante cooperazione militare e che “professionisti della lotta clandestina”, come appunto gli uomini di Hamas, potevano destabilizzare non solo il Sinai ma anche il territorio egiziano.

Contro i Fratelli Musulmani e contro Hamas, al-Sisi ha usato il pugno di ferro ed il Sinai è tornato ad essere lo scenario di una guerra cruenta. Per la prima volta si sono visti mezzi blindati egiziani schierati al confine con la Striscia di Gaza. Erano protetti da elicotteri da combattimento. Sul terreno i militari egiziani hanno provveduto a mettere fuori uso centinaia di tunnel di contrabbando verso Gaza e a creare lungo il confine con la Striscia una “zona cuscinetto” larga mezzo chilometro. In una serie di incursioni, i militari egiziani hanno ucciso nel Sinai un centinaio di miliziani islamici (legati in parte a gruppi con base a Gaza) e hanno perso a loro volta decine di uomini. Di settimana in settimana, l’astio del Cairo verso Hamas è andato montando.

A sorpresa, a fine settembre, Hamas a Gaza era più in gabbia che mai. Politicamente, aveva perso il sostegno della Siria, del Qatar, dell’Egitto e dell’Iran. Fisicamente, aveva perso il controllo dei tunnel: su cui l’apparato di Hamas lucrava. Nella Striscia, affermano fonti locali, serpeggia il malcontento. Il  regime di Hamas è adesso sulla difensiva e reprime sul nascere anche le più modeste manifestazioni di protesta. Due mesi prima tutto ciò sarebbe apparso come pura fantasia.

SIRIA DALLE MILLE SCHEGGE

In Siria, Israele afferma di non avere interessi diretti. Per due anni ha convissuto con lo status quo, durante il quale il regime di Bashar Assad e la variegate forze ribelli si sono dissanguate a vicenda. Da un lato, la caduta di Assad farebbe comodo ad Israele perché indebolirebbe l’“Asse del Male” che va a Teheran e che, via Damasco, raggiunge i quartieri sciiti di Beirut: la roccaforte degli Hezbollah e del loro leader Hassan Nasrallah. Ma la caduta di Assad potrebbe far emergere forze sunnite islamiche radicali, che includono fra l’altro sostenitori di al-Qaida, dei Talebani, dei Ceceni. Se costoro riuscissero ad entrare in possesso di armi di distruzione di massa, sarebbe un pericolo serio non solo per Israele, ma per tutto l’Occidente.

Per Israele, dunque, l’importante è che arsenali di armi non convenzionali (ovvero le bombe chimiche), ed armamenti moderni di produzione russa non cadano in “mani irresponsabili’’: siano esse di al-Qaida e simili, o degli Hezbollah.

Eppure nella torrida estate appena finita, Israele si è trovato suo malgrado quasi trascinato a forza nella guerra civile siriana. È avvenuto a fine agosto quando alla periferia di Damasco 1.400 persone sono state gassate a morte da armi chimiche. Nell’ondata di sdegno suscitata nel mondo, il presidente Barack Obama ha minacciato una ritorsione militare sulla Siria. Ha anche chiesto al premier Benyamin Netanyahu di ricorrere alla propria notoria influenza per convincere il Congresso e il Senato ad appoggiare l’attacco. Era appunto l’ultima cosa che Netanyahu voleva fare: ossia che Israele apparisse agli occhi degli Stati Uniti come un guerrafondaio incallito, tessitore invadente di trame politiche fra i rappresentanti democraticamente eletti dal popolo americano.

Nelle stesse ore Assad faceva sapere che, se attaccato, avrebbe forse risposto in direzioni disparate. Intendeva la Turchia? La Giordania? Oppure Israele? E così, in Israele si sono tornate subito a vedere le code di quanti cercavano, “in extremis”, di dotarsi di maschere antigas.

UN DESTINO BEFFARDO

Ma la Storia sa essere beffarda. E imprevedibile, a volte. Un espediente escogitato da Vladimir Putin ha messo tutti daccordo: perché colpire la Siria se bastava esigere che cedesse i propri arsenali chimici, sul modello utilizzato con Muammar Gheddafi? In Israele si sono sentiti due sospiri di sollievo: il primo, per non essere stato trascinato in una guerra civile dove, comunque, nessuno può essere considerato un potenziale alleato. E il secondo: perché se la carta diplomatica di Putin funzionasse davvero – pochi in realtà lo credono – “Israele avrebbe allora vinto il primo premio della lotteria senza aver neppur acquistato il biglietto’’, dicono tutti, opinionisti, analisti e gente comune. Avrebbe cioè visto dissiparsi la minaccia chimica siriana senza smuovere nemmeno un soldato.

A questo punto, scrivono gli analisti, il regime di Assad si è guadagnato altri mesi di vita, almeno fino alla metà del 2014. In Israele si afferma, in merito, che non tutto il male viene per nuocere, e che questa impostazione è pur sempre meglio del caos totale.

L’IRONIA DELLA STORIA

Sono passati 40 anni dalla guerra del Kippur, quando gli eserciti di Egitto e Siria attaccarono a sorpresa Israele per riprendersi, almeno in parte, le terre perdute nel 1967 e per riguadagnarsi l’orgoglio nazionale. Ironia della Storia: adesso l’esercito egiziano è impegnato nel Sinai a proteggere il confine di Israele dalla minaccia della guerriglia islamica. E in Siria le forze armate di Assad sono pure impegnate allo spasimo per contenere la marea jihadista, anche a vantaggio di Israele. Proprio come nel versetto biblico sui Giusti: Zadikim – melachtam neeseit bidey aherim. Versetto che suona involontariamente ironico e che recita, a proposito dei Giusti: “le incombenze loro, saranno svolte da altri’’.