L’autunno caldo di Israele e le sfide del dopo Gaza

Israele

di Aldo Baquis

YA0003La torrida estate è passata ed in Israele la vita ha ripreso il proprio corso. A Tel Aviv, oggi, spiagge, ristoranti, caffè e teatri sono strapieni. Alla fine dell’anno ebraico, come di consueto, decine di migliaia di timorati hanno spiccato il volo diretti a Kiev, per pregare sulla tomba del rabbino Nahman di Oman. Nel Neghev occidentale, le mucche nelle stalle sono adesso munte con cadenza regolare senza più le brusche intermittenze dovute alle esplosioni di mortai sparati da Gaza; e gli asili nido sono stati là riaperti, protetti da alti muri di cemento. Sui giornali, ampio spazio viene dato agli screzi fra due giornaliste televisive rinomate. Nell’aria c’è una voglia generale di svago: oltre 400 mila israeliani sono andati ai botteghini dei cinema per vedere la commedia anarchica Zero in relazioni umane, Efes be-Yahasey enosh, che ironizza sull’esercito attraverso la voce e l’occhio di alcune soldatesse strapazzate in una remota base del Neghev. La guerra con Hamas non solo è terminata: sembra essere stata efficientemente rimossa, metabolizzata. Con l’eccezione delle famiglie – circa 70 – che hanno perso uno dei loro congiunti e per le quali, dopo l’estate 2014, la vita non sarà più come prima.
Se a Gaza Tzahal abbia riportato un successo militare schietto, oppure solo parziale, strategico oppure tattico, è oggetto di dibattito in Israele. Se i vertici dell’esercito abbiano mostrato la necessaria incisività e determinazione di fronte a Hamas, e se tutto ciò avvicini oppure allontani un confronto con gli Hezbollah libanesi, sono tutte questioni che vengono analizzate con profusione di argomenti dagli analisti militari.
Su un aspetto del confronto concordano in molti: la società israeliana è uscita a testa alta dal confronto voluto dai palestinesi, quello iniziato a giugno, col rapimento e l’uccisione di tre ragazzi ebrei da parte di una cellula di Hamas attiva a Hebron, in Cisgiordania; e da luglio in poi, con l’offensiva dei razzi sparati da Gaza sulle città israeliane. Nei filmati della guerra psicologica di Hamas si prefiguravano rovine di grattacieli in fiamme a Tel Aviv e folle di sionisti in preda al panico. Anni prima, anche la propaganda di Hezbollah dipingeva Israele come “una semplice ragnatela”: come dire, una tigre di carta. La realtà si è invece manifestata molto diversa. La solidarietà nazionale è emersa ed il compiacimento – anzi, un diffuso senso di fierezza – è dunque tangibile.

La lezione politica
Ma ahimè, quando si cerca di trarre una lezione politica coerente dal conflitto con Hamas, si torna nel ginepraio di sempre. Nei sondaggi, la Destra avanza di qualche punto; il Likud resta il primo partito del Paese, anche se sta perdendo colpi. Benyamin Netanyahu viene indicato ancora come il personaggio politico più idoneo alla carica di Primo ministro; dietro a lui c’è il baratro, nessuno di davvero credibile per sostituirlo. Se invece fossero gli opinionisti dei grandi quotidiani a scegliere il Premier di Israele, la sua sorte sarebbe scontata: sarebbe esposto in piazza coperto di pece e di piume. La mancanza principale che gli viene attribuita – rilevano tutti, quasi con le medesime parole, Sima Kadmon di Yediot Ahronot, Ben Caspit di Maariv, Ari Shavit e Yoel Marcus di Haaretz -, è di aver stoltamente picconato le relazioni con Barack Obama, in particolare, e ancor più grave, con gli Stati Uniti in generale.
“Vattene a casa!” (Haaretz); “È andato all’Onu, ma la sua mercanzia non trova clienti” (Yediot Ahronot); “Ogni volta che parla, è solo per fare da uccello dal malaugurio” (Haaretz); “Ha provocato inutilmente Obama”, incontrando il repubblicano Sheldon Adelson (Maariv). Questi commentatori accusano Netanyahu di aver pregiudicato le relazioni bilaterali sulle questioni principali (ad esempio l’Iran), sostenendo il controverso progetto di colonizzazione ebraica in Cisgiordania e a Gerusalemme est. «Dovrebbe semmai puntare ad un accordo con i palestinesi!», protesta a gran voce Marcus, autorevole columnist di Haaretz che ha alle spalle una carriera decennale.
Ma dopo l’estate 2014, quanto resta della formula dei due Stati per i due popoli? Secondo lo Shin Bet (sicurezza interna), questa estate Hamas progettava in Cisgiordania un colpo di Stato contro Abu Mazen. Lo stesso Presidente palestinese ha fatto una sfuriata, in Qatar, al leader di Hamas, Khaled Meshal. Ancora a giugno – gli ha ricordato Abu Mazen-, al Fatah e Hamas avevano messo a punto un governo di riconciliazione nazionale; e poi – ha incalzato sempre alzando la voce -, ecco che Hamas rapisce i tre ragazzi ebrei, dà fuoco alle micce di Gaza e cerca di innescare una rivolta in Cisgiordania. Eppure…, tutto rientra ed ecco che a settembre i rapporti fra le due fazioni sono migliorati e anzi proprio Abu Mazen, dal podio dell’Onu, ha infine assunto toni massimalisti quando ha accusato Israele di essersi macchiato a Gaza di «un genocidio che i palestinesi non potranno mai più dimenticare né perdonare». Parole che sembravano chiudere la porta a qualsiasi prossima ipotesi negoziale.
Retorica a parte, resta la questione dei 20 mila membri del braccio armato di Hamas che continuano a portare avanti una agenda politica autonoma (il cui obiettivo è la distruzione di Israele), del tutto indifferenti al volere del governo di Ramallah. Nessun accordo potrà mai prendere forma stabile finché in casa palestinese le contraddizioni non saranno state risolte.

Smilitarizzare Gaza?
Vista da Washington, la situazione attuale appare comunque insostenibile; occorre dunque rimettere in moto al più presto la macchina dei negoziati – su questo punto Obama ha molto insistito -, per elaborare una soluzione definitiva del conflitto. Ma dopo i 4000 razzi e mortai sparati da Gaza, la prospettiva che l’esercito israeliano sia obbligato a delegare ad altri il controllo militare della Cisgiordania risulta angosciante e ansiogeno per vaste porzioni della società israeliana. Lo stesso Hamas non ne fa mistero: «Se avessimo potuto dislocare i nostri combattenti in Cisgiordania – afferma – avremmo davvero messo in ginocchio lo Stato sionista». Come in passato, Israele è adesso impegnato a riassorbire la crisi: con la riapertura controllata dei valichi per Gaza, in accordo con l’Anp; con l’invio nella Striscia, in accordo con l’Onu, di importanti quantità di materiali per la ricostruzione, e con altre misure umanitarie. Israele vorrebbe la smilitarizzazione di Gaza, ma sa che non avverrà. Dunque, non resta altra scelta che mantenere un atteggiamento prudente, avvalendosi anche dell’aiuto dell’Egitto, dimostratosi decisivo durante la crisi di Gaza.
Quando guarda a Gaza, Netanyahu vede un regime – quello di Hamas – impegnato nella disseminazione capillare di un verbo jihadista e militarista che rappresenta una minaccia non solo per Israele, ma per tutto il mondo occidentale. I sermoni infuocati nelle moschee; l’indottrinamento al “martirio” dei bambini fin dalla più giovane età; l’esecuzione pubblica ed ostentata di “collaborazionisti”, o presunti tali: in questi aspetti – secondo Netanyahu -, Hamas non è poi così diverso dai miliziani dello Stato islamico. Anche Hamas – espugnata la Palestina -, sogna un Califfato. «Hamas e l’Isis sono due rami dello stesso albero velenoso», insiste il Premier. «La lotta contro l’Islam militante è indivisibile», aggiunge: il successo di uno sprona gli altri. «Ecco perché – argomenta – la lotta di Israele contro Hamas non è una nostra lotta privata, ma rientra in un confronto più generale contro il fanatismo».

I fronti nord e sud
Nel confronto con Hamas, Israele ha trovato un alleato insperato nel presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Da un anno l’esercito egiziano è impegnato in una lotta serrata contro milizie jihadiste asserragliate nel Sinai che mantengono legami più o meno sotterranei con i loro fiancheggiatori nella Striscia di Gaza. Filmati in stile Isis (e anche prime decapitazioni di prigionieri), arrivano adesso anche dal Sinai. La “febbre” del radicalismo islamico si estende, varca i confini della Regione, mira a cancellarli e ad annullarne le linee  geografiche divisorie, quelle tracciate a tavolino col righello, all’epoca dei protettorati degli anni Venti.
A ridosso del Golan gruppi di ribelli (per lo più legati a Jabhat al-Nusra, una formazione filo al-Qaida), hanno appena espulso l’esercito di Bashar Assad e adesso controllano il valico di Quneitra. Per diversi giorni hanno anche tenuto in ostaggio una quarantina di Caschi Blu dell’Onu, dislocati sul Golan per garantire gli accordi di smilitarizzazione e di separazione delle forze fra Israele e Siria.
Questi integralisti islamici (non molto dissimili dall’Isis), sono per il momento concentrati anima e corpo nella lotta contro Assad; in un prossimo futuro potrebbero però tentare di penetrare nelle alture del Golan presidiate da Israele. Anche la Giordania è sul chi vive. Se lo Stato Islamico cercasse di abbattere il regime hashemita l’esercito israeliano potrebbe vedersi costretto ad intervenire a sostegno di re Abdallah. Confini che traballano, quindi: il Sinai, il Golan, la Giordania. Ma c’è anche il Libano, dove l’Isis cerca di sfondare e di attaccare Hezbollah per punirli del loro intervento in Siria. Senza contare che sul confine siro-libanese si combatte sempre più spesso (su iniziativa sunnita).
E che dire del recente ingresso nel Big Game della Turchia di Erdogan? Si tratta di una partita molto complessa, con varie fasi e scenari. In passato, la Turchia ha sostenuto e appoggiato lo Stato islamico (vedi la Ong filogovernativa IHH della Mavi Marmara: uno dei suoi dirigenti ha trovato la morte, nelle scorse settimane, proprio nelle file dell’Isis) -, ma adesso Erdogan lo teme. Al punto che ha dovuto accettare uno scambio di prigionieri. C’è anche la questione curda: la Turchia da un lato è nel fronte occidentale che vorrebbe rafforzare i curdi in funzione anti-Isis, ma al tempo stesso non vuole che i curdi di casa propria si irrobustiscano e vadano a combattere con quelli iracheni. Una questione ben intricata.

Anni di solitudine
Per il momento Netanyahu descrive i combattenti dell’Isis con tono vagamente irridente: «In fondo, sono solo miliziani che si spostano su ‘pick-up trucks’, armati di Kalashnikov. Se detenessero armi di distruzioni di massa, tutto sarebbe ben diverso». Ma provvidenzialmente, nel 2007, Ehud Olmert ordinò la distruzione di una centrale nucleare in Siria e l’anno scorso gli Usa hanno provveduto alla eliminazione di parte degli arsenali chimici di Bashar Assad. Il rischio che il radicalismo islamico riesca a munirsi di armi di distruzione di massa – avverte Israele – è semmai in Iran. «Lo Stato Islamico – ha detto Netanyahu all’Onu – va sconfitto. Ma sconfiggere l’Isis e permettere all’Iran di restare sulla soglia del nucleare sarebbe come vincere una battaglia e perdere la guerra». Parole che dovevano far breccia drammaticamente nell’entourage di Obama e che invece – secondo la stampa israeliana – sono rimaste sospese a mezz’aria. Questa è appunto, nella definizione di Yediot Ahronot, «la merce che nessuno vuole acquistare» da Netanyahu. Al termine della torrida estate del 2014 Israele si sente ancora più solo.
(Twitter: @aldbaq)