di Davide Cucciati
Israele si trova coinvolto nella nuova guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti. Il 2 aprile, il presidente Donald Trump ha annunciato un vasto piano di dazi, illustrato, secondo quanto riportato da Globes, come un modo per “riportare la ricchezza in America” e rilanciare l’industria nazionale. La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha definito la giornata dell’annuncio come “uno dei momenti più importanti della storia americana moderna”. In un comunicato ufficiale, l’amministrazione statunitense ha inoltre affermato che “questi dazi sono centrali nel piano del presidente Trump per invertire i danni economici lasciati dal presidente Biden e portare l’America verso una nuova età dell’oro”.
Secondo Globes, Israele è tra gli Stati a cui si applicheranno i nuovi dazi, con un’aliquota del 17%. Si tratta di un valore intermedio: più basso rispetto a quello imposto alla Cina (34% che, in combinazione con i dazi preesistenti, porta il livello effettivo al 54%, secondo quanto chiarito dalla Casa Bianca alla CNBC), all’India (26%), al Giappone (24%) e all’Unione Europea (20%), ma superiore a quello riservato a partner come Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti, Turchia o Singapore. La Casa Bianca ha spiegato che le nuove aliquote non sono direttamente proporzionali al disavanzo commerciale, ma riflettono, secondo quanto dichiarato dal presidente Trump e riportato da Reuters, “circa la metà” del livello delle tariffe, delle barriere non tariffarie e delle altre restrizioni che i singoli Stati impongono alle merci statunitensi.
Nel caso di Israele, è stata calcolata un’aliquota del 17% sulla base di questo criterio. L’inclusione tra i Paesi “penalizzati” preoccupa il ministero delle finanze israeliano poiché gli Stati Uniti rappresentano di gran lunga il principale mercato di esportazione per Israele. Secondo la testata economica israeliana, nel 2024 l’export di beni israeliani verso gli USA è stato pari a 17,3 miliardi di dollari. A titolo di confronto, il secondo Paese in classifica è l’Irlanda (3,2 miliardi), seguita dalla Cina (2,8 miliardi). I settori più esposti all’impatto dei dazi sono quelli dell’elettronica e dei macchinari industriali, le apparecchiature mediche e ottiche, il settore farmaceutico e i diamanti.I dazi, almeno per ora, si applicano solo alle merci e non ai servizi: le esportazioni israeliane di servizi verso gli USA (soprattutto nel settore high-tech) hanno raggiunto i 16,7 miliardi di dollari nel 2024 e non saranno colpite direttamente. Il danno potenziale sul fronte dei beni è comunque rilevante: con un dazio medio del 17% sul valore esportato, si stima una ricaduta potenziale di circa 2,9 miliardi di dollari l’anno che potrebbe ridurre la competitività dei prodotti israeliani e aumentare i costi per i consumatori americani.
Successivamente all’annuncio, il ministro delle finanze israeliano Smotrich ha convocato una riunione d’emergenza con i funzionari del ministero e il presidente dell’associazione degli industriali, Ron Tomer. Secondo quanto dichiarato da fonti del ministero a Globes, il gruppo di lavoro ha avviato un’analisi per individuare i comparti più vulnerabili e pianificare interventi mirati. Peraltro, Israele aveva cercato di muoversi in anticipo. Infatti, nei giorni immediatamente precedenti all’annuncio, il governo aveva adottato due misure: l’abolizione dei dazi sulle importazioni dagli Stati Uniti e l’estensione della riforma “Ciò che è buono per l’Europa è buono per Israele”, adattandola anche agli standard statunitensi. Preme precisare che l’abolizione dei dazi richiede ancora l’approvazione della Commissione Finanze della Knesset. A differenza dell’Unione Europea, Israele ha escluso per ora l’adozione di dazi di ritorsione: l’intenzione è mantenere i canali aperti e puntare a una riduzione delle tariffe, non a una loro escalation. Non mancano, secondo gli analisti israeliani, possibili margini di opportunità. Il fatto che Israele sia tassato meno di UE, India e Giappone potrebbe rendere alcune produzioni israeliane più competitive ma il contesto rimane altamente incerto. Molto dipenderà dalle reazioni europee e dalle dinamiche di una possibile guerra commerciale globale.
Nel frattempo, il mondo della finanza ha reagito con durezza. Il giorno dopo l’annuncio di Trump, i mercati hanno subito un tonfo. Secondo la SkyTG24, il 3 aprile, in apertura del mercato, il Dow Jones ha perso il 2,62%, il Nasdaq il 4,40% mentre lo S&P 500 “lascia sul terreno il 3,4%”. Nike ha segnato un -13% scendendo ai minimi dal 2017; Apple un-8,5% bruciando 255 miliardi di dollari di valore. Il capo stratega di B. Riley Wealth Management, Art Hogan, ha definito l’annuncio “caotico come tutto ciò che questa amministrazione ha fatto finora”, osservando che “il livello di complicazione è peggiore del previsto e non ancora scontato dai mercati”.
Anche sul piano teorico, la scelta di Trump ha suscitato ampie critiche: Piercamillo Falasca, direttore de L’Europeista e in passato responsabile dell’ufficio legislativo di un gruppo parlamentare alla Camera dei Deputati, ha osservato su X che “il fatto che gli Stati Uniti siano in deficit commerciale con il mondo non è di per sé un problema”, poiché negli ultimi venticinque anni hanno attratto una quota crescente di investimenti diretti esteri. “I soldi uscivano sotto forma di consumi, ma rientravano sotto forma di investimenti”, ha scritto, ricordando anche che il dollaro è la valuta degli scambi internazionali, e ciò rappresenta “un altro modo indiretto per finanziare l’economia americana”. Secondo dati del Dipartimento del Commercio USA, gli investimenti diretti esteri nel Paese hanno superato i 5 trilioni di dollari nel 2023, con un’incidenza sul PIL superiore al 20%. “Dalla guerra dei dazi scatenata da Trump non ne verrà nulla di buono”, conclude Falasca. “Abbiamo secoli di evidenza a spiegarcelo. Il mondo non stava fregando gli USA: è Trump a illudere i suoi cittadini e a far male a tutti”.
Anche The Economist ha preso posizione in modo netto, definendo l’iniziativa “la decisione economica più grave e inutile dell’era moderna”. Nell’editoriale del 3 aprile, la rivista britannica accusa Trump di voler riscrivere la politica commerciale americana con criteri arbitrari e privi di basi economiche. Secondo la testata, le conseguenze sono quasi inevitabili: inflazione, interruzione degli scambi, ritorsioni da parte di altri Stati e, potenzialmente, una nuova recessione globale.
Israele si trova così ad affrontare una sfida complessa: difendere l’accesso al suo mercato di esportazione principale e orientarsi in un contesto internazionale sempre più instabile.