Il Berit Milà. Origini storiche della Circoncisione e fonti bibliche del Precetto

Opinioni

di Chaim Magrizos

Parte I
Il concetto

Il Precetto della Milà, ovvero Berit Milà, cioè il Patto della Circoncisione, come più comunemente viene denominato, è indubbiamente considerato basilare, nell’ambito dell’ebraismo, talmente radicato nella sua storia e tradizione, da essere vissuto e accettato come elemento caratterizzante e irrinunciabile della stessa identità ebraica, anche da coloro che, per i più svariati motivi, si sono decisamente allontanati dall’osservanza delle mizvot in generale, o addirittura dalla stessa Comunità ebraica e/o dall’Ebraismo nel suo complesso.

L’origine nella Torah (scritta) del precetto, e la stessa denominazione che lo identifica, «Berit Avraham Avinu» (il Patto di Avraham nostro Padre), o più semplicemente «Berit», cioè «il patto», per antonomasia, si riferiscono soprattutto a Gen. 17, 10: “Questo è il mio Patto che stipulo con te ( Avraham) … ogni maschio sia  circonciso per voi”. Questo segno (Ot), diventa un obbligo, la cui trasgressione viene punita con la severissima pena del karet, per tutti gli aventi diritto ai benefici del patto  di (cioè concesso a?!) Avraham.

Origini della Milà

Eliahu Shemuel Artom, nota a proposito della circoncisione che questa era già in uso presso diverse popolazioni orientali e pertanto la sua introduzione non costituiva una “novità”: che significato possiamo attribuire a questa “accettazione” nella Torah di tale uso? È noto che, per lo più, la Torah si contrappone, si allontana e “supera” e anzi per lo più condanna la maggior parte delle usanze di carattere “religioso” diffuse presso le popolazioni idolatre, e in particolare, i Cananei; la circoncisione, che di fatto comporta una, se pur piccola, mutilazione, non sembrerebbe in sintonia, né con “lo spirito”, né con la lettera della Torah, che “esige” la tutela dell’integrità fisico-corporea delle creature, contrapponendosi a ogni forma, anche minima, di lesione, con significato “religioso”, molto in voga presso le popolazioni idolatre dell’epoca, ma ancor oggi persistenti. Certamente vi sono ben poche eccezioni a questa regola generale della Torah, e anche in questi casi, tali consuetudini, accettate, o, meglio, “tollerate”, vengono, per così dire, “incanalate” e circoscritte in una disciplina “nuova” nelle forme e soprattutto per il significato etico che vi si annette: un esempio pregnante è costituito dalla normativa sui sacrifici: una forma di “ingraziarsi” il Divino, tanto in auge, che viene “mal tollerata” si potrebbe dire, in tutto il Tanakh: la Torah in particolare, condanna molto severamente, come massima espressione di abiezione morale, i sacrifici umani degli adoratori dei Baal e di Moloh; pertanto i sacrifici di animali “accettati” vengono circoscritti, in ambiti molto precisi.

La Milà come esigenza umana

La Milà, verosimilmente, rientrerebbe fra le “eccezioni”: rimane da chiarire il suo significato “nuovo”, essendo essa inserita tra le mizwot più importanti della Torah; il contesto in cui viene trattato l’argomento, ci può aiutare a comprenderlo: è possibile evidenziare un percorso “a tappe”, in cui si configurano in modo progressivo, le modalità, i vincoli, i benefici e infine il segno del Patto voluto e stipulato dal Signore con Avraham; in Gen. 15, 1-6 si anticipano alcuni dei benefici del patto che sarà esplicitato più avanti; il Signore promette ad Avraham, una progenie molto numerosa “come le stelle del cielo”; Avraham, non chiede alcuna garanzia di questa promessa;

“e credette al Signore e questo gli fu riconosciuto come atto di  “Zedaka”(giustizia?), Gen 15, 6. La seconda tappa del percorso viene descritta subito nei versi successivi (Gen. 15, 7-10); il Signore promette di dare la Terra alla progenie; in questo caso Avraham non “si accontenta” della Parola data dal Signore, ma Gli chiede una sorta di “pegno”: “con che cosa saprò che La erediterò?”

Notiamo, in questo caso, un cambiamento di atteggiamento, apparentemente “involutivo”, dal punto di vista della fede nei confronti del Signore, di Avraham. La risposta del Signore, tuttavia, è immediata: la richiesta viene accolta, e il Patto viene sancito con un “atto notarile”, secondo le usanze dell’epoca; viene compiuto il “berit ben ha-betarim”, il Patto “tra i pezzi di bestie”, presenti e partecipi entrambi i “firmatari”. La terza tappa del percorso, è contraddistinta dal segno del Patto, la prescrizione della Milà (Gen. 17, 4-14): il Signore, ribadisce gli impegni del Patto per entrambe le “Parti”, che includono la progenie di Avraham, che ne sarà la beneficiaria e avrà la concessione della Terra di Canaan “in eredità perpetua”, e prescrive la Milà, come “segno” a tutti i beneficiari del Patto, non solo i figli d’Israele, ma anche quelli di Ismaele e di Esaù.

Possiamo ora chiederci perché Avraham abbia apparentemente cambiato il suo atteggiamento iniziale di fede assoluta. Rashi nota che la “garanzia” richiesta da Avraham si riferisce alla Promessa dell’eredità della Terra; la precedente, che si riferiva alla numerosa progenie, per un credente qual era Avraham, non necessitava di altre prove, in quanto la sua realizzazione dipendeva esclusivamente dalla volontà del Signore; viceversa l’eredità della terra, coinvolgendo altri possibili “pretendenti” che avrebbero potuto contestare ad Avraham la legittimità di tale eredità, rendeva necessaria l’acquisizione, da parte dell’avente diritto, di un “documento”, cioè di un atto “notarile” che ne comprovasse la legittimità. La richiesta rivolta al Signore da Avraham, pertanto, non è dettata dal venir meno della sua incrollabile fede, bensì dall’esigenza che incombeva su di lui di confrontarsi con gli altri uomini in merito al suo diritto di “proprietà” della Terra. La terza “tappa”, infine, si riferisce a un segno tangibile e visibile del Patto già stipulato tra le due parti, ma pur sempre in assenza di testimoni: una sorta di “documento” esibibile all’occorrenza; questo non è destinato solamente a comprovare l’esistenza e la veridicità del Patto nei confronti dei potenziali oppositori, bensì agli stessi beneficiari, ovvero, ai discendenti di Avraham, che ereditano i vincoli del Patto stipulato dal patriarca: la memoria che testimonia anche a loro, l’obbligo di adesione al Patto, è incisa sulla loro carne, è indelebile. La milà, pertanto, può essere considerata un “diritto-dovere” della progenie di Avraham, nonché di tutti coloro che si associano, a qualsiasi titolo al “Berit” di Avraham, compresi Tutti Coloro che erano stati appartenenti a popolazioni idolatre (“Bene’i Nehar”, Estranei; Gen.17,12).

Evoluzione del Concetto nella Bibbia

Negli altri libri della Torah, il precetto della Milà, non viene più ribadito in modo esplicito, come per lo più succede per altre mizwot fondamentali; in particolare Moshè, non ne fa alcuna menzione nel suo “Mishnè Torah”, il libro del Deuteronomio; tuttavia la Milà viene citata, in modo episodico, in alcuni contesti, non come una mizwah “nuova” da insegnare, come tante altre non ancora note, ma piuttosto come un dato già acquisito dai “Bene’i Israel”. Un esempio del genere, si trova in Lev.12, 2-3, dove si parla del periodo di “impurità” per la puerpera, derivante dalla perdita di sangue nel periodo post partum, e distinto rispettivamente in caso di nati di sesso femminile o maschile; a proposito dei maschi, quasi per inciso, rispetto all’argomento del contesto, si “ricorda” (evidentemente un elemento già noto), che “nell’ottavo giorno si circoncida la carne del suo prepuzio”; il Talmud si basa su questo verso per affermare che l’obbligo della Milà, da eseguirsi obbligatoriamente nell’ottavo giorno dalla nascita, come prescritto, salvo impedimenti da cause di forza maggiore, è prioritario anche rispetto all’osservanza dello shabbat, le cui norme possono e devono essere trasgredite per tutte le necessità inerenti l’esecuzione della milà a tempo debito.

La milà era conosciuta e praticata regolarmente, come si è detto, già in epoca premosaica, il che trova riscontro in molti passi, della Torah e anche del resto della Bibbia; per questo motivo forse, il termine “‘Arel”, ( l’incirconciso), viene spesso usato in modo dispregiativo e/o come sinonimo di “Nohrì”, straniero-estraneo (similmente al concetto di “barbaro” per la Grecia classica, si potrebbe dire); cioè la persistenza del prepuzio, viene considerata come una grezza imperfezione, tale per cui, il portatore debba essere oggetto di vergogna (v. ad es. Giosuè 5, 9). Nell’episodio di Davide e Golia, il primo, parla del nemico in modo sprezzante, come un essere spregevole: “…chi è questo Filisteo, questo Arel che osa insultare le schiere del Dio Vivente…?” (Sam I, 17, 26) .

Un episodio che comprova l’acquisizione della Milà, anche come tratto identificativo di appartenenza etnico-sociale, lo troviamo già in Genesi 34, a proposito della vicenda di Dina e dello stratagemma adottato dai fratelli contro il popolo di Shehem. Un altro episodio, molto interessante, è quello che si riferisce al figlio di Mosè, minacciato di morte per la sua condizione di incirconciso, e salvato grazie al pronto intervento della madre (una Midianita!), che provvede a circoncidere immediatamente il figlio (Es. 4, 24-26).

In Giosuè (5, 2-5), si parla della circoncisione massiva dei maschi della generazione successiva a quella dell’Esodo; i maschi di quest’ultima erano già stati già circoncisi in Egitto, mentre i loro figli, nati nel deserto, non erano stati circoncisi mentre durava la traversata del medesimo; pertanto, abbiamo anche in questo racconto una conferma che la pratica della circoncisione non era stata interrotta, neppure durante il periodo della schiavitù, essendo già ben radicata nella coscienza di quello che doveva diventare il futuro popolo dei figli d’Israele. Lo stesso racconto, tuttavia, ci rivela che vi fu invece un lungo un periodo di tempo, quello trascorso nella traversata del deserto appunto, in cui tale pratica era stata interrotta; quale ne era stata la causa? Il testo, a questo proposito, si limita a osservare che “non erano stati circoncisi durante la traversata” (Giosuè, 5, 6-7), e non fornisce alcun elemento di spiegazione. Rimane quindi da chiarire la questione; il quesito riguarda in particolare il comportamento di Mosè: perché il Legislatore e Maestro per eccellenza, non ha provveduto a porre rimedio a una situazione, di persistente omissione, per un periodo tanto protratto, di un precetto così fondamentale? Mosè stesso, tra l’altro, era reduce da un’esperienza personale, quella già citata dell’omessa circoncisione di suo figlio. La precarietà delle condizioni nel deserto non può fornire una spiegazione soddisfacente al problema del comportamento di Mosè in questa circostanza, in quanto la lunga durata (quarant’anni) di quella traversata gli avrebbe consentito comunque di intervenire e ripristinare l’osservanza del precetto. Inoltre non può sfuggire all’attenzione un nesso tra i due episodi che videro come mancato protagonista lo stesso personaggio di tale caratura. Chi più di lui, infatti, avrebbe dovuto dare il “buon esempio”, mediante l’osservanza attiva del Precetto? Si potrebbe forse pensare che la Milà, proprio perché già ben “acquisita” nella coscienza, oppure perché non di pertinenza esclusiva del “Popolo di Sacerdoti”, non necessitasse di ulteriori “richiami”, da parte del Legislatore? Questa interpretazione, “coazione a ripetere l’errore” da parte del Maestro: una “trascuratezza” inconcepibile per un personaggio del suo calibro! Possiamo pensare ad altre possibilità interpretative? È ammissibile l’ipotesi di una “dimenticanza voluta” di Mosè? Anche se una possibilità del genere sembra inverosimile, non si deve escludere a priori: come già si è accennato, esaminando l’origine della mizwà, è lecito pensare che essa vada incontro piuttosto a un’esigenza umana, e quindi si presenti come una “concessione” della Torah, in tal senso; per di più, troviamo in tutta la Bibbia molti passi che inducono a considerare la Milà, come un’eccezione rispetto alla tendenza preponderante a privilegiare la “spiritualità” rispetto alla“materialità” delle manifestazioni religiose. Possiamo prendere in esame alcuni di questi passi: si è già detto del divieto assoluto di qualsiasi tipo di mutilazione, anche se di minima entità; non vi è dubbio, che anche la circoncisione comporti una lieve menomazione sul piano dell’integrità fisica dell’individuo. Il divieto del tatuaggio, ad esempio, secondo l’alakhà, fa riferimento a Lev. 19,28 e Deut. 14,1, ove si parla, del divieto di produrre incisioni (scarificazioni cutanee) o “rasature tra gli occhi” a scopo di lutto (questo tipo di tradizione, è diffuso, anche con altre motivazioni “sacrali”. ancora ai giorni nostri); è degno di nota l’incipit-motivazione del verso in Deut.: “Voi siete figli al Signore…”: più che un’imposizione sembra la manifestazione di un Genitore premuroso, preoccupato per la salute e l’integrità fisica delle sue creature. Gli usi e costumi “religiosi” sono spesso all’origine di atteggiamenti autolesivi (autofustigazioni, cilicio, infibulazioni ecc.); il Signore, che sorveglia al benessere delle Sue creature, ci insegna che tali credenze sono fasulle e gli atteggiamenti conseguenti, non Gli sono affatto “graditi”, e perciò, tanto meno, sono da Lui Medesimo richiesti.

Chaim Magrizos è medico pediatra a Torino.
Ha studiato presso la Scuola Rabbinica Margulies-Disegni.

(La seconda parte di questo articolo verrà pubblicata la prossima settimana)