Tzedakà: aiutare gli altri per trovare il proprio posto nel mondo e “salvare” se stessi (forse)

Ebraismo

di Ilaria Myr

Non solo pietà o carità ma autentica norma etica, atto di giustizia e pietra angolare della società civile. La Tzedakà e la ghemilut hasadim sono una costante di tutte le feste ebraiche, specie a Rosh haShanà e Yom Kippur. A livello spirituale è la scoperta dell’Altro, è lo sforzo per uscire da se stessi e dalla prigione dell’Io, è il grado più alto dell’empatia: aiuto economico e benevolenza, per alleviare i bisogni materiali e spirituali degli altri.

Tzedakà tatzil mimmavet”, la tzedakà salva dalla morte: è quanto recita un proverbio della tradizione ebraica (10: 2), la cui forza è molto evidente. Che sia, come si discute, morte fisica o piuttosto esclusione dal mondo a venire in un senso spirituale (Peà 1,1), il messaggio che ne emerge è uno: se vogliamo assicurare la vitalità della persona e della società tutta dobbiamo garantire la tzedakà, uno dei principi fondanti dell’ebraismo, che va inteso in un senso ampio e globale di giustizia sociale (Tzadik in ebraico non indica forse il Giusto?).

Non solo, dunque, pietà o carità, come spesso si crede, ma vera e propria norma etica che, partendo dalle azioni del singolo, costituisce le fondamenta della società civile. Un principio tanto basilare quanto antico nell’ebraismo. «C’è una massima all’inizio del IV cap dei Pirké Avot che dice, a nome di Ben Zomà: ‘Eizehu ‘ashir? Hassameach behelkò’, ovvero ‘chi è il ricco? colui che è soddisfatto della sua parte’ – spiega a Bet Magazine Rav Alberto Somekh -. Uno dei commenti sostiene che l’affermazione ‘colui che è contento della sua parte’ presuppone che nel momento della creazione Dio abbia dato a ciascuno di noi beni in parti uguali. Nel tempo questo equilibrio si è rotto e si sono create forti disuguaglianze. Ben Zomà quindi dice che il vero ricco è colui che si accontenta della sua parte, intendendo con questo la parte originaria: si rende cioè conto che c’è un di più nei suoi averi che dovrebbe essere proprietà di un’altra persona.

La ragione profonda della tzedakà consiste dunque nel cercare di tornare all’equilibrio originario che rispondeva alla volontà del Creatore. Ecco perché non è solo carità o beneficenza, ma un atto dovuto. Tanto che si arriva ad affermare – ovviamente solo con conseguenze morali, non giuridiche – che chi nega la tzedakà è un ladro.

Già Maimonide e le fonti talmudiche riconoscono l’esistenza di diversi livelli di tzedakà: quello più basso, in cui si aiuta economicamente chi si conosce, e uno più alto, in cui la si pratica senza sapere chi è il destinatario, basato su un principio dei proverbi che dice ‘donare in segreto trattiene l’ira divina’. Ma la modalità più alta in assoluto è procurare al prossimo un lavoro, in modo da garantirgli un avvenire.

Un maestro del Medio Evo, Rav Yehiel di Roma arriva a dire nel suo Sefer Maalot hamiddot che, come la povertà, anche la ricchezza costituisce una prova per chi la detiene: chi dispone di mezzi maggiori deve dimostrare come sa utilizzarli, aiutando i più bisognosi».

Tutti però per l’ebraismo, devono fare tzedakà, in proporzione alle proprie possibilità, fino a un quinto dei propri averi. Occuparsi del prossimo diventa dunque un dovere, una responsabilità che ognuno di noi ha e alla quale nessuno può sottrarsi, che sia povero o ricco. «Questo è un aspetto fondamentale: la responsabilità è prima di tutto personale – spiega Rav Alfonso Arbib -. In un mondo organizzato come quello attuale, in cui esistono realtà, istituzioni comprese, che si occupano del prossimo, il grande pericolo è la de-responsabilizzazione individuale: pensando che qualcun altro farà per noi, non ci assumiamo le nostre responsabilità individuali».

Eloquente, a questo proposito, è un racconto chassidico, riportato da Martin Buber. «Un maestro sta spiegando ai suoi allievi che tutto ciò che Dio ha creato è buono. Ma i discepoli gli chiedono: ‘Nel mondo c’è l’ateismo, e cosa c’è di buono nel non credere in Dio?’. Il maestro risponde: ‘A volte arriva un povero e chiede a un buon ebreo un aiuto e lui gli risponde Dio ti aiuterà. In quel momento bisogna essere atei, Dio non esiste: esisti solo tu’. Questo per dire che Dio ha delegato ognuno di noi a fare del bene».

 

Non solo aiuto economico, ma benevolenza

L’aiuto economico, però, è solo uno degli aspetti basilari del concetto di giustizia sociale: fondamentali, infatti, sono anche tutte quelle buone azioni nei confronti della persona, che rientrano nel concetto di ghemilut hasadim, la benevolenza, che non sono necessariamente legate al denaro. Prima di tutto vi deve essere l’immedesimazione nel prossimo, la partecipazione alle sue tristezze, così come anche alle sue gioie. Una visita a un malato o a chi ha perso un caro, recitare il kaddish per un parente di un amico, fare compagnia a chi è solo: sono solo alcuni degli innumerevoli esempi che si possono fare di “buone azioni” che rientrano in questo quadro e senza le quali non vi può essere tzedakà.

«Si pensi al pidion hashvuim, il riscatto dei prigionieri, una delle mitzvot considerate più importanti durante il Medio Evo, per le quali le comunità ebraiche spendevano moltissimo – continua Rav Arbib -. Lo dimostra quello che successe dopo la rivolta dei cosacchi nella Confederazione polacco-lituana avvenuta nel 1648-1657, che causò grandi tragedie nelle comunità ebraiche locali: molti ebrei furono fatti prigionieri e venduti come schiavi. Ma nessuno di loro restò in schiavitù: furono tutti riscattati dalle comunità». Si deve però andare indietro fino al primo patriarca, Avraham, la cui tenda era aperta su quattro lati in modo da accogliere i viaggiatori, per trovare l’esempio per eccellenza di benevolenza nei confronti del prossimo. «Quando fece la milà, nella Parashà di Vaerà si dice che egli stava fuori dalla tenda ‘al caldo del giorno’. Un Midrash racconta che faceva molto caldo perché Dio non voleva disturbarlo con visite di viandanti. Ma da uomo giusto qual era, Avraham sta fuori ad aspettare chiunque passi di lì per ospitarlo».

 

Tzedakà e feste ebraiche

Pilastro, dunque, della concezione di giustizia dell’ebraismo, la tzedakà e la ghemilut hasadim sono un fil rouge di tutte le feste ebraiche, prime fra tutte Rosh haShanà e Yom Kippur, le prime festività dell’anno ebraico. «Rosh haShanà è l’inizio degli yamim noraim, i giorni solenni, in cui l’obiettivo della persona deve necessariamente essere fare teshuvà – spiega Rav Paolo Sciunnach -. Non si può però fare teshuvà di fronte a Dio se non si è disposti a riappacificarsi con il prossimo. Nella 1° Mishnà del Trattato di Yomà su Yom Kippur, si dice che nel giorno dell’espiazione vengono perdonate solo le azioni verso Dio, ma non quelle verso il prossimo, a meno che non ci si sia riappacificati prima». Una festività in cui la tezdakà è esplicitamente richiesta è Purim, che nelle mitzvot prevede i doni ai poveri (matanot laevionim), mentre la ghemilut hasadim è evidente in altre due mizvot: il banchetto (seudà) e la lettura pubblica della Meghillat Ester. Ma anche a Pesach: “chi è affamato venga e mangi”, si legge nel brano HaLachma anià con cui si apre l’Haggadà. «E poi l’invito a ‘ricordare che schiavo fosti in terra d’Egitto’ e ad agire di conseguenza ‘perché conosci l’anima dello straniero’ – continua Rav Sciunnach -: anche questo fa capire quanto nell’ebraismo il rapporto con Dio sia strettamente legato a quello con il prossimo. Non è un caso che le Tavole della Legge siano due: una dedicata alle norme verso HaShem, e l’altra alle norme verso l’uomo».

Eloquente a questo proposito, è anche il noto Midrash su un pagano che “si presentò dal maestro Shammai e gli disse: ‘Fa’ in modo che io possa entrare nella fede ebraica, a condizione però che tu mi insegni l’intera Torah mentre io sto su una gamba sola’. Shammai lo cacciò via con lo strumento da misura dei costruttori, che aveva in mano. Quello allora andò da Hillel, che invece lo fece entrare nella fede ebraica dicendogli: ‘Ciò che su di te è odioso, al tuo prossimo non farlo’. Questa è tutta la Torah, il resto è interpretazione. Ora va’ e completane lo studio”. «Non viene cioè detto ‘osserva lo shabbat’ o un’altra regola nei confronti del Signore, ma viene data una regola nei confronti degli altri esseri umani: questo è la Torà».

 

Una giustizia sociale oggi

Ma quanto questi concetti possono essere applicati oggi in una società come quella contemporanea, in cui le ingiustizie certo non mancano? «A maggior ragione devono essere applicati, ricordandoci sempre che il primo che attua una giustizia sociale è HaShem – è convinto Rav Sciunnach -. In un mondo come il nostro, in preda a un relativismo etico galoppante, è importante affermare un’etica religiosa, basata su valori universali, primi fra tutti la tzedakà e la ghemilut hasadim».

 

Foto in alto: nella Sinagoga di Urbino, i bossoli (per Yerushalaim e Eretz Israel, per Tiberiade, per la tzedakà e la ghemilut hasadim, per lo Shemen lamaor, l’olio per le lampade, per la tomba del rabbino Meir Baal HaNes a Tiberiade) © Ester Moscati