Negoziati con l’Iran, ma «con i terroristi non si tratta». Intervista a Rayhane Tabrizi

Mondo

di Sofia Tranchina

Missili e droni si inseguono tra i cieli di Iran e Israele, mentre l’Occidente lancia appelli al dialogo e prepara nuovi colloqui diplomatici. Ma a cosa serve trattare ancora, se il regime islamico resta al potere, armato, isolato, feroce?

L’opposizione alla Repubblica Islamica riunisce da decenni migliaia di iraniani dentro e fuori dal Paese: attivisti, intellettuali, cittadini comuni. Li accomuna l’insofferenza per l’autorità violenta e misogina che li opprime dal 1979. Ma la forza dei numeri porta con sé anche divergenze profonde: tante voci, tante sensibilità.

Alcuni invocano una transizione interna, senza interferenze straniere: una riforma per volta, malgrado la lentezza. Tra questi gli attivisti Parisa Nazari e Shady Alizadeh, che hanno lanciato una petizione che chiede lo stop immediato dei raid israeliani: “il movimento non ha mai chiesto l’intervento militare di potenze straniere”, ricordano. Anche i premi Nobel Narges Mohammadi e Shirin Ebadi, insieme ad altri attivisti, hanno firmato una lettera aperta che chiede il cessate il fuoco immediato, ma anche un passo indietro sul nucleare e una transizione politica volontaria.

Altri ritengono che le circostanze richiedano misure drastiche, e sperano che l’intervento israeliano — pur tragico — offra loro l’occasione per la libertà agognata. Molti graffiti sui muri di Tehran riportano diverse formulazioni della frase: “Colpiscili, Israele. Gli iraniani sono dietro di te”.

Tra questi Rayhane Tabrizi, attivista iraniana in esilio che vive in Italia dal 2008, e da qui denuncia quotidianamente i crimini dei pasdaran (che i dissidenti esortano a inserire nella lista delle organizzazioni terroristiche), e dei loro alleati.
(Qui l’intervista che Mosaico le aveva fatto nell’aprile 2024).

All’opposizione serviva «una leva esterna per accelerare la lotta contro il regime», spiega: senza essere accompagnati da «una qualche forma di collaborazione dall’esterno», non si riusciva a scalfire la crosta dura della teocrazia, armata e protetta dalla sua mostruosa macchina propagandistica. Non volevano un conflitto armato, ma ora che c’è, non vogliono anni di sforzi e sacrifici vengano vanificati da una diplomazia miope.
I missili israeliani, per quanto ufficialmente mirati contro gli impianti nucleari e i centri nevralgici della Repubblica Islamica, stanno coinvolgendo la vita civile in modo disastroso: centinaia di vittime civili, edifici privati distrutti, vie e infrastrutture necessarie alla vita quotidiana danneggiate. Inoltre, Teheran sta usando il popolo “come scudo umano”, aggiunge Tabrizi: con il blocco totale di internet, le persone non ricevono più gli avvisi di evacuazione lanciati da Israele, «e questo permette al regime di usare ogni “martire” per la sua propaganda vittimista». Israele non deve cadere in questa trappola, mette in guardia.

Rayhane Tabrizi,. Foto: Lorenzo Ceva Valla

Ma non si può tornare indietro. Il conflitto armato era «l’ultima risorsa», ma, «per quanto doloroso, ora bisogna andare fino in fondo», afferma con voce rotta Tabrizi, che ha ancora parenti e amici in Iran. «Anche se questo significa che molti innocenti pagheranno il prezzo più alto». E per quanto sognasse di vedere i vertici dei pasdaran processati da un tribunale internazionale, «ogni criminale in meno è un passo verso la libertà».

Una soluzione diplomatica potrebbe peggiorare le cose: «la richiesta di cessate il fuoco mossa da alcuni attivisti iraniani parte dal cuore, ma non è logica: se anche un solo esponente del regime dovesse sopravvivere e riuscisse a riorganizzarsi, l’Iran verrà trascinato in anni bui e brutali». Il rischio maggiore è che il regime, umiliato militarmente sullo scenario internazionale, reagisca con rinnovata violenza all’interno, scatenando un’ondata repressiva per annientare l’opposizione.

Per quarantasei anni la Repubblica Islamica ha inseguito il sogno di annientare lo Stato Ebraico: “sarà sradicato e distrutto, sparirà dal paesaggio, e la divina promessa di eliminarlo sarà compiuta”, ha ripetuto il governo. Ha istituzionalizzato l’odio con l’annuale cerimonia Quds Day, in cui si inneggia “Morte a Israele” nelle piazze e si brucia la bandiera di Israele. Ha investito miliardi in operazioni contro Israele, mentre la popolazione iraniana affondava nella povertà. Ha distrutto l’economia, isolato il Paese e trasformato il Medio Oriente in una scacchiera di guerra per procura: Hezbollah, Hamas, la Jihad islamica, gli Houthi, sono tutti sostenuti e armati da Teheran per combattere Israele, nemico ideologico.

E allora Tabrizi mette in guardia a «non cadere nella propaganda del regime», come hanno fatto alcuni compatrioti condividendo frettolosamente sui social la storia “Israele sta attaccando l’Iran senza nessuna provocazione”: «sono offuscati dal nazionalismo e dall’amore per la patria, ma quello che sta accadendo è la ovvia conseguenza di anni di provocazioni».

Eppure, non idealizza Israele a eroe di una favola geopolitica. Sa che nessuno Stato combatte per altruismo: Netanyahu non bombarda il regime islamico “per amore del popolo iraniano”. Ma oggi, gli interessi degli iraniani che vogliono liberarsi dall’oppressore, e di Israele che vuole neutralizzare chi minaccia la sua esistenza, convergono.

Ma «in Europa manca totalmente consapevolezza», commenta amareggiata. Proprio mentre Israele colpiva le sedi della TV di Stato iraniana — il cuore pulsante della propaganda —, la televisione pubblica italiana intervistava l’ambasciatore iraniano a Roma. «Nessuna domanda scomoda, nessun contraddittorio» si lamenta Tabrizi: è uno schiaffo alla lotta del popolo iraniano, che rischia tutto mentre l’Europa presta il microfono alla Repubblica Islamica e le fornisce l’opportunità di diffondere la sua propaganda. «Oltre al regime, ora dobbiamo combattere anche contro l’ignoranza degli italiani, complici delle bugie del regime?».

Intanto a Ginevra si apre un nuovo tavolo negoziale tra Germania, Francia, Regno Unito e l’Iran, con l’Unione Europea nel ruolo di mediatore. Tabrizi non nasconde la rabbia. Ogni tentativo di normalizzazione è una forma subdola di complicità e legittimizzazione, che rende intollerabile il dolore degli iraniani dopo questi giorni di paura e lutto: «Perché mettere a repentaglio la vita dei civili, se poi l’Occidente torna al tavolo con il regime da cui ci si doveva liberare? A che è servito, se Israele bombarda e l’Europa negozia?».


Ogni volta che un ministro europeo stringe la mano a un rappresentante della Repubblica Islamica, oltraggia il coraggio delle donne che hanno tolto il velo, dei ragazzi che sono stati torturati, degli esiliati che non possono tornare. Di chi come lei rischia ogni giorno: il sistema repressivo iraniano ha infatti perseguitato sistematicamente dissidenti anche all’estero, con omicidi, avvelenamenti, rapimenti. Si guardi a Habib Chaab, rapito in Turchia e impiccato in Iran, e Masih Alinejad, sopravvissuta a tentati omicidi a New York.

L’Iran è scosso dall’artiglieria pesante e l’Occidente si affretta a mediare, ma Tabrizi commenta tranchant: «non si tratta con i terroristi. Con l’ISIS avete negoziato?».
Il timore che vengano sacrificati gli ideali umanitari alla stabilità geopolitica è esacerbato da un altro fattore non indifferente: il petrolio. «L’Iran fa gola», si sa, perché ha una riserva energetica con un ricco mercato potenziale. E così «si chiudono gli occhi e si stringono le mani».
In questo gioco meschino, «L’Europa recita la parte della democrazia illuminata», inveisce l’attivista, «ma in realtà è una farsa. Si direbbe che non gliene importa nulla né della vita degli iraniani, né di quella degli israeliani, nonostante – come solo Merz ha riconosciuto – Israele stia “facendo il lavoro sporco del mondo intero”, anche a costo di generare un ulteriore odio antiebraico».
Rayhane Tabrizi non pretende chissà qual gesto salvifico, sa che ogni paese ha la sua lotta e i suoi interessi, ma chiede al mondo uno sforzo di onestà intellettuale: «il mio cuore piange. Ma voi non dovete dare ascolto al regime: date importanza alla voce degli iraniani». La canzone del popolo deve contare più delle menzogne del suo oppressore.