2015: la grande vittoria della democrazia israeliana

Opinioni

di Aldo Baquis

Likud party supporters react after hearing exit poll results in Tel AvivDovevano essre le Idi di marzo. E invece Cesare è sopravvissuto. A sorpresa. Ma la vittoria elettorale di Benyamin Netanyahu è stata accolta con espressioni di sbigottimento e di frustrazione non solo negli ambienti laici progressisti di Israele, ma anche nelle diplomazie occidentali. Da parte loro i palestinesi possono almeno consolarsi perché un governo rigido a Gerusalemme rende più agevole l’Intifada diplomatica intrapresa da Abu Mazen.
Ma una cosa è certa. La democrazia israeliana esce da queste elezioni a testa alta. Dal Marocco all’India, è difficile trovare un altro Paese dove possano svolgersi elezioni altrettanto oneste, ordinate, e prive di violenze. L’episodio più drammatico è stato il lancio (riprovevole) di una bottiglietta di succo di frutta verso la candidata araba Hanin Zuabi.
Il garante del voto era un giudice arabo, Salim Jubran. Fra l’altro ha impedito la trasmissione in diretta di una conferenza stampa di Netanyahu nel giorno delle elezioni. Dallo spoglio delle schede è emerso poi che, per la prima volta in decenni, la minoranza araba è rappresentata adesso alla Knesset dal terzo partito, in ordine di grandezza, dopo il Likud e il centro-sinistra di Herzog e la Livni. La guida un marxista ateo: in un Medio Oriente sempre più fondamentalista, una contro-tendenza quantomeno interessante.

DEMOCRAZIA E DEMOGRAFIA
Formalmente, l’apparato democratico funziona come un orologio svizzero: cosa non ovvia in un Paese dove gli attacchi terroristici possono accadere in ogni momento. Certo ci sono stati “buchi neri”: le parole insopportabili di monito, ad esempio, di Netanyahu per il voto massiccio nelle località arabe. Anche Herzog ha fatto spiacevoli “distinguo” sulla cooperazione con la lista araba.
Ma la questione centrale riguarda la demografia. Il peso della minoranza araba e degli ebrei ortodossi sale in progressione elevata, e con loro il numero dei coloni. I tempi in cui la sinistra laica raccoglieva alla Knesset 54 dei 120 seggi (nel 1992, con Yitzhak Rabin), sono tramontati. Facendo miracoli ed acrobazie Herzog (Campo sionista) e Zahava Galon (Meretz) hanno racimolato assieme 29 seggi: solo due in più rispetto al 2013 (quando c’era anche Kadima, ora defunto). In futuro dovranno arrampicarsi sugli specchi per non perdere altro terreno.
Gli anni rosei del governo Rabin – il migliore in assoluto, penso, negli ultimi decenni -, non torneranno. A meno che centinaia di migliaia di ebrei progressisti non intraprendano un drammatico ponte aereo da Usa e dall’Europa per stabilirsi in Israele. Per il momento si assiste, viceversa, alla partenza di giovani israeliani verso Berlino, Londra, New York.

bibi il “GUERRAFONDAIO”?
Il premier è da anni oggetto di demonizzazione all’estero. Viene rappresentato come un dirigente estremista, guerrafondaio. In questa campagna elettorale è stato attaccato dai suoi rivali politici anche per ragioni opposte. È stato descritto come titubante, incerto nel momento del pericolo, anche pavido. Chi abita in Israele sa che la caratteristica che lo contraddistingue è semmai la prudenza. Se c’è una cosa che Netanyahu odia è mandare i militari verso missioni da cui potrebbero non fare ritorno. La morte del fratello maggiore Yoni ad Entebbe (1976) rientra probabilmente nella sua collezione di traumi.
La scorsa estate ad aprire le ostilità a Gaza è stato Hamas, non Netanyahu. E dopo una settimana di combattimenti, a metà luglio, il braccio armato di Hamas ha respinto sdegnosamente la prima tregua proposta dall’Egitto, malgrado le pressioni in senso contrario del presidente della Palestina Abu Mazen.
Netanyahu ha gestito il conflitto con cautela, ha respinto i consigli di quanti invocavano l’occupazione totale di Gaza. A guerra terminata (alle identiche condizioni politiche di metà luglio), Abu Mazen avrebbe forse dovuto denunciare di fronte al popolo palestinese l’avventurismo di Hamas (che peraltro da giugno faceva parte di un governo di riconciliazione nazionale con al-Fatah) e la sua terribile responsabilità nella distruzione di Gaza.
Giunto a un crecevia critico per il proprio popolo, uno statista avrebbe scelto la strada in salita. Abu Mazen ha invece preferito imboccare la strada più agevole, a sei corsie: cioè trascinare Israele alla Corte penale internazionale dell’Aja per “crimini di guerra”.

no al POLITICALLY CORRECT
Se c’è una cosa che gli israeliani odiano è il “politically correct”, le astrazioni che fanno da gradevole musica di sottofondo nei salotti-bene, ma che poi rischiano di non essere applicabili sul terreno. Così è ormai (per colpe gravi tanto israeliane che palestinesi), la formula, la melopea, dei “Due Stati per due popoli”.
Nessuna delle forze politiche israeliane è favorevole a uno Stato binazionale dal Giordano al Mar Mediterraneo. La quasi totalità auspica una separazione dai palestinesi della Cisgiordania. Ma con milizie islamiche (sunnite e sciite) che pullulano lungo i confini assieme con consiglieri militari iraniani, l’ultima cosa che Netanyahu si sente di fare è rinunciare al controllo militare in Cisgiordania. Abu Mazen ha contribuito ad accrescere lo scetticismo quando ha rinunciato a misurarsi con Hamas e quando a febbraio ha iniziato preparativi per cessare la cooperazione di sicurezza con Israele.
Nelle cancellerie occidentali si ripete spesso che la costituzione di uno Stato palestinese è la condizione necessaria per riportare l’armonia e la stabilità nel Medio Oriente. Ma l’israeliano della strada, che non si fida delle astrazioni, ritiene invece, con Netanyahu, che uno Stato palestinese molto presto assumerebbe un carattere islamico combattente. Netanyahu ha agitato a proprio favore il senso di ansia. Ma talvolta anche i paranoici hanno nemici reali.

LA MIOPIA DI NETANYAHU
Va detto che in anni passati la situazione era più propizia per iniziative di pace. La Cisgiordania era relativamente stabile e tranquilla, impegnata alla edificazione di infrastrutture economiche. Netanyahu anche allora, per convenienza politica interna, si è aggrappato allo status quo. Per quella colpevole negligenza meritava di essere rimosso dal potere. Adesso il problema cocente – a cui non offre risposte – è però che quello status quo comporta rischi pesantissimi. In assenza di alcun “orizzonte politico” una sollevazione generale in Cisgiordania non può essere esclusa. Potrebbe essere accompagnata da attacchi armati, da Gaza e dal Libano. Il mese scorso l’esercito sono stati simulati scenari di emergenza.
Intanto Netanyahu sta per varare un governo basato su nazionalisti, coloni, rabbini ortodossi e anche politici schiettamente xenofobi. Un governo la cui capacità di dialogo con l’Occidente sarà molto ridotta, e che rischia di accrescere l’antagonismo verso Israele, forse anche nella forma di sanzioni economiche. Un governo che rischia di accrescere l’ostilità verso gli ebrei della Diaspora. Tutto ciò poteva essere risparmiato, almeno in parte, con una politica meno urticante, specialmente nelle colonie. Più che giustificata l’apprensione di quanti temono che, come conseguenza delle libere scelte democratiche degli israeliani, su Israele stia per abbattersi uno “tsunami” diplomatico.
Al tempo stesso va notato che più che del Likud, la vittoria elettorale è stata di Netanyahu, in prima persona. Nella Destra nazionalista e nel suo partito dispone di una autorità senza eguali. Sulla carta, avrebbe ampia libertà di manovra se si aprissero spiragli diplomatici. Al suo fianco ha un personaggio di prestigio: Benny Begin, un nome che è una “tèudat kashrut”, cioè un marchio di garanzia di purezza ideologica likudiana.

Aldo Baquis, 63 anni, vive in Israele da più di 40 anni, è corrispondente dell’Ansa e collaboratore  dei quotidiani Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno (in passato anche de La Stampa), ed è uno dei maggiori conoscitori italiani della realtà politica e sociale di Israele, cronista di lungo corso la cui professionalità e affidabilità sono, da sempre, un punto di riferimento per i colleghi più giovani inviati in questa porzione di mondo. Aldo Baquis collabora da sette anni per il Bollettino mettendo la sua competenza al servizio dei lettori e lo fa per pura passione giornalistica. Ci tenevamo a sottolineare pubblicamente questo aspetto, dopo tanti anni di articoli scritti per noi e per tutti voi, cari lettori della Comunità di Milano.