Chi ha vinto la guerra?

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I commentatori e gli analisti specializzati in questioni mediorientali hanno finito per trascorrere questo ultimo scorcio d’estate friggendosi il cervello. E ancora adesso che la missione militare italiana è in rotta verso le sponde del Libano, ancora adesso che un nuovo capitolo sulla vicenda della situazione mediorientale sta per aprirsi, continuano a interrogarsi. La domanda emblematica sarebbe: chi ha vinto la guerra?

Gli integralisti di Hezbollah che occupano abusivamente il Libano meridionale, spingendo al massacro la popolazione civile? Il governo di una Beirut ricattata da Damasco, che soffocato dalle ambiguità si limita a fare quello cui da sempre ci hanno abituati gli esecutivi fantoccio della regione? Gli europei, smaniosi di ritagliarsi un ruolo internazionale?
Roma, che dalla Farnesina a palazzo Chigi a Montecitorio, corre il rischio di bruciare con un passo falso il capitale di credito su cui la nuova compagine di governo può contare? Washington e Londra, che vorrebbero mettere un freno all’aggressività islamica, prevenire ulteriori catastrofi terroristiche e fermare l’espansione nucleare delle dittature di Allah?
O, forse, l’ha vinta Israele, che ha ridotto l’impressionante arsenale ammassato dai terroristi al Nord, ha resistito alla dolorosa pioggia di missili cercando di colpire nella minor misura possibile la popolazione civile libanese?

Dire con certezza chi ha giocato al meglio le sue carte in questa partita è probabilmente del tutto prematuro.
Ma in quanto ebrei italiani qualche lezione possiamo pure cominciare a trarla.
Se volessimo cavarcela con una battuta, tanto per cominciare, e tanto per guardare la realtà in faccia, con poco timore di essere smentiti possiamo indicare chi sono gli sconfitti. Chi sicuramente esce sconfitto senza rimedio, in una situazione tanto difficile sono alcuni dei nostri migliori amici. Non intendevano certo combattere su un fronte o su un altro. Volevano solo godersi un soggiorno, una vacanza, una visita, in terra di Israele. Gli avvenimenti bellici li hanno spinti alla prudenza, in alcuni casi hanno fatto prevalere la paura, e la loro estate ha preso una piega diversa. Ma l’eccesso di prudenza, o forse la carenza di fiducia, ha comportato per loro il prezzo più alto. Il rimorso, la frustrazione di non essere stati presenti sulla terra dei propri padri proprio in un momento tanto delicato.

Andare in Israele, quantomeno per un breve periodo estivo, rappresenta ormai per molti ebrei della Diaspora un momento irrinunciabile di contatto e di rafforzamento della propria identità. E rappresenta per Israele una piccolissima, ma tangibile, testimonianza di solidarietà.
Le forze del terrore non hanno altro compito che quello di farci sembrare troppo difficile e troppo pericoloso questo viaggio, questo piccolo grande salto dal mondo in cui viviamo al mondo cui apparteniamo. Tutti noi dovremmo offrirlo il più spesso possibile, e senza alcun timore, a noi stessi e ai nostri figli. Perché come che vadano le cose Israele è un faro irrinunciabile in tutti i nostri orizzonti ebraici.

Questa stagione, intensa, complicata e per Israele ricca di grandi rischi e di grandi opportunità, sta anche ad annunciare che nel nuovo anno alle porte dovremo affrontare prove molto difficili. Sarà necessario guardare attentamente a Roma e vigilare sulla politica di un governo, il nostro, che alla sue prime prove di politica internazionale si dimostra ansioso di svolgere un ruolo attivo. Sarà necessario assumere tutte le cautele nei confronti di una minaccia terroristica e antisemita che non è stata ancora debellata. E vigilare non significa solo controllare i viaggiatori negli aeroporti. Significa anche tenere d’occhio tutti quei segnali che la nostra società lancia o lascia passivamente passare.
Il caso del proclama grondante antisemitismo, espresso da una fazione degli islamici che vivono in Italia e pubblicato da alcuni giornali quotidiani, la dice lunga su come stanno le cose. La democrazia dà fastidio e crea imbarazzi, in Medio Oriente e a qualcuno anche a casa nostra. Dalla nostra capacità di reagire e dalla solidarietà che saremo capaci di suscitare dipenderà molto del nostro futuro, ma anche del modello di un’Italia aperta, democratica, equa e pluralista, di cui tutti noi sentiamo la necessità.