Sacks, il rabbino globe-trotter

di Ilaria Myr

Dopo aver guidato per 22 anni l’ebraismo britannico, il rabbino più mediatico dei tempi moderni, apprezzato anche al di fuori del mondo ebraico, affronta una nuova sfida: continuare a divulgare il proprio pensiero a livello planetario.

L’ex premier britannico Tony Blair l’aveva definito un “intellettuale gigante”, mentre il Principe Carlo addirittura “una luce nella sua nazione”. Rav Lord Jonathan Sacks, 65 anni, Rabbino Capo del Regno Unito e del Commonwealth per 22 anni fino allo scorso agosto, è senza dubbio la guida spirituale ebraica più mediatica e mediatizzata dei nostri giorni.

Autore di decine di libri molto ben accolti sull’ebraismo e il suo posto nel mondo contemporaneo (alcuni dei quali divulgati anche tramite il Bollettino e presenti sul sito Mosaico come Lettere alla prossima generazione 1 e 2), e curatore di una pagina sul Times of London, è stato fino a qualche mese fa un volto molto frequente sulla BBC, dove conduceva ogni anno, in occasione di Rosh Ha-Shanà, un programma dedicato alla fede, intervistando ideologi atei come Richard Dawkins e lo scrittore Howard Jacobson.

Una personalità, insomma, di grande spessore intellettuale e dalla grande capacità comunicativa, che ha saputo parlare di ebraismo a pubblici diversi e variegati non solo all’interno del Regno Unito, ma anche fuori, in modo assolutamente globale.

Saper parlare a tutti

Oggi che non è più Rabbino Capo, può continuare a divulgare il proprio pensiero a livello planetario, sia attraverso la Rete e i social media – mezzi già da lui ampiamente sperimentati (ha pure un profilo su Facebook) – sia recandosi di persona in altri Paesi.

Come spiega un bell’articolo del quotidiano online Tablet Magazine (www.tabletmag.com), Rav Sacks è infatti oggi impegnato in un viaggio in Canada, Stati Uniti, America Latina e Israele, per tenere lezioni in diverse università. Una sorta di «intellettuale ebreo girovago, senza formale portfolio», come si definisce.

Ma non c’era un modo per parlare al mondo rimanendo ancora alla guida dell’Ebraismo britannico? «Ho dovuto lasciare il mio incarico il più presto che ho potuto – spiega – per non arrivare al punto di non riuscire a compiere il mio dovere nella comunità ebraica britannica, ormai troppo preso da impegni internazionali».

La nuova “missione” di Rav Sacks è dunque molto ambiziosa: parlare in modo efficace a tutto l’enorme e variegato mondo ebraico – si pensi soltanto alla realtà americana, così frammentata al suo interno – da una posizione incrollabilmente fedele all’ortodossia. Sarà egli capace di favorire una nuova generazione di leader ebrei, anche se non condividono le sue convinzioni? E allo stesso tempo, sarà in grado di continuare a dialogare con le altre correnti dell’ebraismo? Normale chiederselo, vista la grandezza della sfida.

Una vita per il dialogo

In realtà, all’inizio, Jonathan Sacks non aveva mai pensato di diventare rabbino: figurarsi Rabbino capo. Cresciuto in una famiglia tradizionale da genitori con un’educazione ebraica tradizionale, studia filosofia a Cambridge e consegue il dottorato a Oxford e al King’s College di Londra. Frequentando però alcuni rabbini, che saranno i suoi mentori, decide di cambiare i propri studi: passa così al Jew’s College (oggi London School of Jewish Studies). Si diploma e, dopo dodici anni come rabbino in una sinagoga di Londra, diventa prima direttore del College e poi, nel 1991, viene nominato Rabbino Capo del Regno Unito. In questi anni, ha portato la tradizione ebraica a confrontarsi e ad accettare alcune delle questioni più moderne, dall’economia di mercato alla globalizzazione, e ha applicato le visioni delle discipline laiche – come filosofia politica e neuroscienze – alla religione.

«Ad oggi ho scritto 25 libri ma ne ho ancora almeno altri 25 da scrivere». Alcuni dei temi che verranno affrontati: l’etica ebraica; un nuovo commento alla Torà; una risposta ortodossa alle critiche moderne alla Bibbia, e un’opera in più volumi sulla sua filosofia personale dell’ebraismo. «Non scrivo libri perché ho voglia di scriverli – aggiunge -; li scrivo perché voglio leggerli».

Il suo background universitario è evidente nel suo approccio all’ebraismo, che apprezza le domande, le voci contrastanti e i dibattiti anche all’interno dell’ebraismo stesso e delle sue diverse correnti: tutto ciò, però, sempre in un’ottica che non si allontana mai dall’ortodossia, di cui Sacks fa parte. In questo senso va visto il suo atteggiamento in occasione del funerale del rabbino reform Hugo Gryn: prima, il rifiuto a presenziare alla cerimonia, ma poi il suo intervento al servizio in Sua memoria. Allo stesso modo, Sacks non ha mai partecipato al Limmud, l’annuale incontro ebraico pluralistico (di cui è co-fondatore Clive Lawton), ma ha sempre permesso ai rabbini di svolgerlo.

Allo stesso modo, ancora, non ha mai esitato a prendere le distanze da approcci iper-tradizionali, con cui non è d’accordo. Nel suo recente libro The Great Partnership: God, Science and the Search for Meaning, Rav Sacks sostiene che religione e scienza siano complementari, piuttosto che in conflitto: tanto da arrivare ad accettare e celebrare le scoperte della biologia evoluzionista e della cosmologia contemporanea riguardo alle origini della vita e dell’universo. Aspetti questi, tutti rifiutati invece nettamente da uno dei maestri più influenti di Sacks, il Lubavitcher Rebbe Rabbi Menachem Mendel Schneerson, a cui lo legava un rapporto molto forte. «Si dice che a Rav Nachman di Bratislava continuassero a chiedere “perché non segui il derekh (strada) di tuo padre”. E lui rispondeva: “Lo faccio! Mio padre non ha fatto quello che faceva suo padre, così io non faccio quello che lui fece”. Questo è un assioma fondante dell’ebraismo, per cui quando un tuo maestro ti dice “yoreh, yoreh” – ti do il permesso di insegnare – tu puoi farlo così come tu intendi questo impegno. “Ein lo le-dayan elah mah she-einav ro’ot”: un giudice deve procedere secondo i fatti così come lui li vede».

Dai numerosi libri di Rav Sacks si possono capire molte cose della sua personalità e del suo pensiero: ma per capirlo fino in fondo, è fondamentale sapere vedere quello che non vi è scritto. Per esempio, la sua lotta contro il cancro, che ha sconfitto ben due volte, a 30 e a 50 anni: di questo Sacks non parla mai nei suoi libri. «Mio padre, che è stato molto malato fino alla fine, non aveva una grande educazione ebraica, ma aveva un’enorme emunà (fede) -spiega -. Lo vedevo mettere i tefillin in ospedale, e facendolo lo vedevo diventare più forte. Mi sembrava che la sua attitudine mentale fosse “lascio questo ad Hashem. Se ritiene che sia per me giunto il momento di andare, allora vorrà dire che lo sarà. E se invece ha bisogno che faccia ancora delle cose qui sulla terra, mi curerà”. Io ho adottato lo stesso approccio in entrambe le occasioni in cui mi sono ammalato, in cui pensavo “b’yado afkid ruchi” (nelle Sue mani affido la mia anima). E dal momento che lo diciamo ogni giorno in Adon Olam, non sentivo la necessità di scriverlo in un libro. Avevo fede. Punto e basta».