Da Berlino a Gerusalemme, com’era dolce il sogno d’Israele

Libri

di Davide Foa

Gershom Scholem, Else Lasker Shuler, Arnold Zweig…
Un libro racconta le storie esemplari di un gruppo di grandi personaggi dell’intellighenzia tedesca, emigrati in Eretz Israel fra il 1920 e il 1948. Tra sogno e realtà, tra utopia e mito,
il sionismo a contatto con il “nuovo mondo”

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il quartiere tedesco di Gerusalemme, Ghivat Ha Ghermanim, negli Anni Trenta del ‘900, con il suo ufficio postale.

Sionismo: una parola, infinite sfaccettature. Sbaglia chi crede di poter riunire tutti i sionisti della storia in una grande famiglia senza alcun litigio, in pace e armonia. Chi si definisce sionista avrà sempre una sua peculiarità, che lo renderà diverso e in molti casi ostile ad altri suoi “simili”. Per questo è importante conoscere e capire le motivazioni che portano, chi prima e chi dopo, ad aderire a quel grande e frastagliato movimento politico, ideologico, spirituale.
La scrittrice, storica e docente Claudia Sonino l’ha fatto. Nel suo libro intitolato Tra sogno e realtà. Ebrei tedeschi in Palestina (1920-1948) edito Guerini e Associati (245 pagg., € 21,50), ripercorre la storia e i pensieri di sei grandi personaggi dell’intellighentzia tedesca emigrati nell’Yshuv tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo.
Un’analisi, quella della Sonino, capace di ripercorrere non solo la biografia di ogni singolo personaggio, ma anche i più nascosti pensieri e motivazioni che portarono ciascuno a scegliere la via della Palestina sotto Mandato Britannico. Accadde che spesso e volentieri questi intellettuali arrivassero in Eretz Israel con valigie cariche di sogni e preconcetti, convinti di aver raggiunto la terra biblica del latte e del miele. Dal sogno alla realtà, la Sonino ci svela tutte le problematiche affrontate una volta giunti in quella terra in costruzione, dinamica, ma allo stesso tempo carica di conflitti e difficoltà per chi era abituato alla comoda vita occidentale.

Hugo Bergman, sionista “spirituale”
C’è chi arrivò nell’Yshuv sulla scorta di un sionismo spirituale, come Hugo Bergman. Discepolo di Martin Buber, vedeva nel sionismo una possibilità di riscatto per l’ebreo diasporico. Bergman, come Buber, sostiene la necessità di un rinnovamento ebraico. Una sorta di ritorno alle origini, che sappia però distaccarsi dalla sterile cultura del cosiddetto rabbinismo e dalla “patologia del ghetto”, entrambi colpevoli di aver represso la creatività ebraica tramite la Legge.
Vista la continua crescita degli arabi, gli ebrei, secondo Bergman, non sarebbero dovuti andare in Eretz Israel come colonizzatori, ma come portatori di cultura. E allora, come scrive lo stesso filosofo, “la prova del fuoco del carattere veramente ebraico della nostra colonizzazione sarà il nostro rapporto con gli arabi”. Bergman dà anche una base religiosa a questa sua convinzione: in ogni comportamento morale verso i non ebrei si santifica il Nome di Dio. Nel 1920 si trasferirà stabilmente a Gerusalemme, dove qualche anno dopo si affermerà come uno dei fondatori dell’Università. Aderisce anche al Brit Shalom, un’associazione che supporta la collaborazione con gli arabi e propone la costruzione di una dimora ebraica, non di uno Stato, in Palestina.

Gershom Scholem, l’anarchico
Tra i fondatori del Brit Shalom c’è anche Gershom Scholem, altro intellettuale tedesco protagonista del libro della Sonino. Scholem, appartenente alla generazione “post-assimilazionista”, esprime un sionismo antiborghese, anarchico e mistico-religioso, distante e avverso sia a quello tedesco assimilazionista, sia a quello rabbinico tradizionalista. Scholem era fautore di un sionismo elitario e caratterizzato da un forte rigore morale, ispirato dal pensiero dello scrittore russo Achad Haam. Non a caso arriva a criticare fortemente la Quarta Alyah, quella del 1924-1925, perché appunto non elitaria: chi veniva in Palestina doveva essere, per Scholem, sionista convinto e non un semplice fuggitivo. Deluso e amareggiato, nell’Yshuv Scholem finisce per isolarsi ritirandosi da tutto ciò che riguarda la vita pubblica. Ma la delusione più grande arriva nel 1931 in occasione del XVII congresso sionista; Scholem, così come l’intero Brit Shalom, vede nelle scelte di Chaim Weizmann, leader dell’Organizzazione Sionista Mondiale, un progressivo avvicinamento al sionismo revisionista e nazionalista di Vladimir Jabotinskij. Il sionismo, per Scholem e gli altri membri del Brit Shalom, poteva a quel punto dirsi morto.

Else Lasker Shuler, poetessa utopista
Sulla stessa scia di Scholem possiamo collocare la poetessa Else Lasker Shuler, ugualmente animata da un sionismo utopista di matrice squisitamente tedesca. Vede infatti in Eretz Israel una terra di elezione e non un semplice rifugio. Non a caso, anche lei si ritroverà ben presto isolata. All’entusiasmo iniziale subentrerà lo sconforto, se non addirittura la depressione, in una vita caratterizzata da una perenne instabilità, alla continua ricerca di un cambiamento che di fatto non si verificherà mai. Un’instabilità che si esprime soprattutto nell’incapacità di stabilirsi definitivamente in Israele. La Shuler sceglierà di fare la pendolare, finendo per sognare Eretz Israel quando si trova in Europa e rimpiangere la vecchia vita quando è in Eretz. Solo la guerra metterà fine al suo andirivieni, costringendola, di fatto, a rimanere nell’Yshuv. Anche la Shuler vi sbarca con una valigia carica di preconcetti, frutto del suo amore per l’ebraismo biblico e intriso di mito delle origini: il suo Sogno non riuscirà mai a combaciare con la Realtà. Come per molti altri personaggi del libro, anche la “poetessa degli ebrei”, come le piaceva chiamarsi, sentirà di non ricevere il giusto riconoscimento da parte del suo Popolo.

Gabriele Tergit, la “herzliana”
Contro questo sionismo utopista ed elitario si scaglia Gabriele Tergit, scrittrice tedesca giunta in Eretz Israel nel novembre del 1933 per raggiungere il marito. Al sionismo spirituale ed elitario di Achad Haam, pericoloso per tutti quegli ebrei che vedono nell’Yshuv un rifugio, la Tergit contrappone quello di Herzl, in quel momento secondo lei debole per mancanza di seguaci, che certo non sono i revisionisti.

Arnold Zweig, il rivoluzionario
Altro personaggio chiave è lo scrittore Arnold Zweig, sostenitore di un nazionalismo non violento e non propagandato, ma piuttosto socialista e rivoluzionario. La Prima guerra Mondiale gli permette di entrare in contatto con ebrei orientali; ne è fin da subito sedotto, li considera un popolo coeso. Sono proprio questi ebrei – diversi da quelli assimilati occidentali – a riaccendere in lui l’interesse per l’ebraismo e il sionismo. Secondo Zweig, sarà il giovane ebreo orientale a far rinascere l’ebraismo in Eretz Israel. Lo scrittore, col passare del tempo, cercherà di coniugare il sionismo spirituale con uno di tipo più pratico. Anche per questo, dovrà rinnegare il suo giudizio sugli ebrei orientali, a suo avviso troppo passivi e inabili politicamente. Zweig arriva nell’Yshuv solo nel 1933; si sente subito ignorato dal resto della popolazione e certo la sua scarsa conoscenza dell’ebraico non aiuta. Quello che inizialmente si presenta come un isolamento linguistico finisce per diventare psicologico. Ben presto abbandona la causa sionista in favore di un sempre più forte interesse per la psicanalisi, come testimoniano i suoi continui contatti con Sigmund Freud. L’accordo stipulato tra la Federazione Sionista della Germania e Hitler, nell’agosto del 1933, non fa altro che aumentare il distacco tra Zweig e il sionismo nazionalista. Il patto, che prese il nome di Haavarah, permetteva la trasmissione delle proprietà degli ebrei tedeschi dalla Germania alla Palestina mandataria, facilitando così lo spostamento delle persone. Agli occhi di Zweig si trattava di un accordo carico di ipocrisia e allo stesso tempo nocivo al boicottaggio che molti Paesi avevano intrapreso contro la Germania hitleriana. Questa sua ostilità nei confronti del nazionalismo sionista lo porta a dedicarsi alla causa della “sinistra mondiale”, finendo così per aderire a circoli antisionisti legati a Mosca. La sua nuova rivista, Orient, dedicata a tutti quei tedeschi che nell’Yshuv si sentivano emarginati, raccolse ben presto grandi antipatie tra i sionisti estremisti, finché una bomba piazzata nella sede non ne decretò la fine.

Paul Shuman, il realista
Con l’avanzare della guerra e delle discriminazioni antiebraiche in Europa, sempre più ebrei scelsero Eretz Israel come rifugio. Uno di questi fu lo scrittore e avvocato Paul Shuman, arrivato nel 1933 sfruttando l’accordo Havaarah.
Diversamente dagli altri personaggi analizzati dalla Sonino, Shuman non ha aspettative né sogni; ciò gli permette di distinguere luci e ombre, e allo stesso tempo gli garantisce una forte capacità di adattamento, estranea a molti dei nuovi venuti. Tra sionismo e assimilazione, egli propone una terza via: l’ebreo deve mantenere la propria specificità nello Stato di cui è parte. Arrivato nell’Yshuv, anche Shuman dovrà fare i conti con un difficile adattamento, ma a questo saprà contrapporre il valore più importante: la libertà. Si sente finalmente libero di essere ebreo, non deve più fingere.