Avadim ainu… E ricorderò ciò che Dio fece per me in Egitto

di Gaia Piperno

Gioia, libertà, responsabilità: la “chiamata” di Pesach, Ogni generazione attraversa un suo Egitto simbolico e reale,
per ciascuno c’è una schiavitù da cui uscire… Pesach è un appello all’assunzione di responsabilità, un invito a provare empatia
e gratitudine per essere stati liberati. Ieri come oggi 

Quando mi è stato chiesto di scrivere una riflessione su Pèsach, mi è subito venuto in mente un articolo scritto dalla giornalista Chen Sror pochi giorni dopo il 7 ottobre dal titolo: Ciascuno deve vedere sé stesso come se fosse uscito da Beerì. Da Kfar Aza, da Ofakìm, da Sderòt.

La citazione rivisitata del celebre brano della Haggadà è stata per me che vivo a Gerusalemme come un pugno nello stomaco, in un contesto già tremendamente tragico e doloroso. Quel brano è centrale nella celebrazione del sèder di Pèsach e ha un ruolo fondante nell’identità ebraica.
L’Haggadà di Pesach inizia raccontando l’idolatria, la schiavitù e la miseria dei nostri padri e termina con inni di gioia e di lode a Dio, che ci ha fatto uscire dalle tribolazioni d’Egitto, ci ha salvato dalla schiavitù, ci ha redento e ci ha preso come popolo.

Lo spartiacque tra queste due parti dell’Haggadà è il passo Bekhòl dor vadòr – In ogni generazione. Ecco la traduzione del brano:
“In ogni generazione l’uomo ha il dovere di vedere sé stesso come se fosse uscito dall’Egitto, com’è detto: Racconterai a tuo figlio in quel giorno dicendo: Per quello che Dio fece per me quando sono uscito dall’Egitto (Es. 13, 8). Il Santo Benedetto non ha redento solo i nostri padri, ma anche noi con loro. Com’è detto: Ci fece uscire da lì per condurci, per dare a noi la terra che aveva promesso ai nostri padri (Deut. 6, 23)”.

Riporto di seguito alcuni commenti sui termini evidenziati per comprendere meglio il brano.
Rav Kook spiega che la redenzione avviene a poco a poco, in ogni generazione, e ognuno di noi ha il compito di completare, conseguire e percepire la propria parte nella sua generazione. Elie Wiesel sottolinea due parole di questo brano: la parola adàm, “uomo, essere umano”, che conferisce al testo un valore universale, perché non indica unicamente i figli d’Israele; e la parola keìlu, “come se”, che sancisce che in realtà no, noi non eravamo in Egitto veramente, e non siamo usciti da lì, ma ciò non toglie l’importanza dello sforzo intellettuale ed emotivo che ci viene richiesto per comprendere e identificarci in quella situazione.

Nel Mishné Torà, Rambàm riporta questo brano usando un termine leggermente diverso: “In ogni generazione l’essere umano ha l’obbligo di mostrare sé stesso come se fosse uscito dall’Egitto”. Invece di liròt – “vedere sé stesso”, usa il termine leharòt – “mostrare sé stesso”. Rav Soloveitchik spiega questa variazione con l’obbligo di un ricordo che non sia meramente celebrativo, ma che implichi l’impegno a rivivere l’evento passato in modo talmente significativo da arrivare a capire fino in fondo l’esperienza della schiavitù e della liberazione, tanto da essere in grado di passare alla seconda parte della Haggadà in modo profondamente sentito: con canti e danze, con pianti e grida, con lacrime e abbracci.

Il Natzìv si sofferma sul versetto che viene citato: da dove impariamo che ognuno deve sentirsi come se lui stesso fosse uscito dall’Egitto? Perché nella Torà è scritto lì – “per me”: così come ogni uomo deve sapere che il mondo è stato creato proprio per lui (Sanhedrìn 4,5), allo stesso modo ogni uomo deve sapere che la liberazione dall’Egitto è avvenuta proprio per lui, e dimostrarsi grato al Creatore e degno della libertà di poter seguire la via della Torà.

Tuttavia: come si può obbligare qualcuno a considerarsi uscito dall’Egitto se non è mai stato schiavo e magari non è mai stato neanche in Egitto? Rav Adin Steinzaltz, sorridendo, ci direbbe che non c’è bisogno di essere schiavi per essere liberati, né di trovarsi in Egitto. In ogni generazione, in ogni esilio e nei tempi più bui, Pèsach ha rappresentato sempre e comunque un momento di liberazione interiore, una redenzione dell’anima. La prima parte del brano si riferisce al singolo, all’Io, perché solo attraverso l’esperienza individuale si arriva a quella collettiva a cui si rivolge la seconda parte del brano. Nonostante le differenze, quello che a mio avviso accomuna tutte le precedenti interpretazioni è il dovere di un’assunzione di responsabilità da parte di ognuno di noi di compiere quello sforzo intellettuale, emotivo e morale per calarsi nella realtà di cosa significa essere stati schiavi, essere stati soggetti all’autorità altrui che può decidere della tua vita, per un sì o per un no. Non in modo distaccato, ma in modo estremamente individuale e personale, sulla propria pelle. Questa immedesimazione non deve essere fine a sé stessa, ma deve farci sentire fino in fondo la sofferenza provata al fine di riempire il nostro cuore di chemlà, che può tradursi come “empatia, tenerezza, amore”, e di senso di gratitudine a Dio che ci ha liberato da quella condizione. E questa consapevolezza di essere uomini liberi è propedeutica alla seconda parte della Haggadà, che termina con una chiara prospettiva per il futuro: una prospettiva di ricostruzione, di speranza e di gioia.

Viviamo nella necessità di ristabilire la sicurezza dei confini e nella difficoltà di affrontare il crescente antisemitismo intorno a noi. Ma non dobbiamo lasciarci intimidire e dobbiamo ricordarci i valori che ci contraddistinguono. Richiamare queste parole dell’Haggadà collegandole agli eventi tragici del 7 ottobre deve essere un invito all’umiltà, all’assunzione di responsabilità, alla ricostruzione e alla riparazione, all’attenzione per il prossimo. Per me la gioia è sapere che questi sono i nostri valori, che questa è la nostra tradizione, questi sono i nostri insegnamenti, e la speranza è che illuminino le nostre vie e le nostre decisioni come singoli, come comunità, come popolo e come genere umano.

“Chi ha fame venga e mangi, chi ha bisogno venga e faccia Pesach. Quest’anno siamo qui, l’anno prossimo in terra d’Israele. Quest’anno siamo qui schiavi, l’anno prossimo in terra d’Israele, liberi. L’anno prossimo a Gerusalemme costruita. Leshanà habaà biYrushalaim habnuià”.

* Gaia Piperno, già morà della scuola ebraica, oggi vive a Yerushalaim e collabora con la Jerusalem Foundation.