(Foto: l’antico Mikveh di Ortigia, Siracusa)
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Il primo principio essenziale per comprendere le leggi di purezza e impurità rituale è che Dio è vita. L’ebraismo è un rifiuto profondo dei culti, antichi e moderni, che glorificano la morte. Un secondo principio, altrettanto sorprendente, è la sensibilità acuta che l’ebraismo mostra verso la nascita di un bambino. Nulla è più “naturale” della procreazione.
Le parashot di Tazria e Metzorà contengono leggi che sono tra le più difficili da comprendere. Trattano di condizioni di “impurità” derivanti dal fatto che siamo esseri fisici, anime incarnate, e quindi esposti (per usare le parole di Amleto) ai “mille colpi naturali cui la carne è erede”.
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Nel corso della storia ci sono stati due modi distinti e opposti di rapportarsi a questo fatto: l’edonismo (vivere per il piacere fisico) e l’ascetismo (rinunciare al piacere fisico). Il primo venera il fisico negando lo spirituale, il secondo pone lo spirituale sul trono a scapito del fisico.
La via ebraica è sempre stata diversa: santificare il fisico – mangiare, bere, il sesso e il riposo – facendo della vita del corpo un veicolo per la Presenza Divina. La ragione è semplice. Crediamo con fede perfetta che il Dio della redenzione sia anche il Dio della creazione. Il mondo in cui abitiamo è quello che Dio ha creato e dichiarato “molto buono”. Essere edonisti è negare Dio. Essere asceti è negare la bontà del mondo di Dio. Essere ebrei significa celebrare sia la creazione che il Creatore. Questo è il principio che spiega molte caratteristiche altrimenti incomprensibili della vita ebraica.
Le leggi con cui inizia la Parashà sono esempi sorprendenti di questo:
Quando una donna concepisce e partorisce un maschio, sarà tame’ah per sette giorni, proprio come durante il periodo di separazione del ciclo mestruale… Poi, per trentatré giorni aggiuntivi, avrà un periodo di attesa durante il quale il suo sangue è ritualmente puro. Fino al completamento di questo periodo di purificazione, lei non dovrà toccare nulla di sacro e non dovrà entrare nel Santuario.
Se partorisce una femmina, avrà per due settimane lo stesso status di tame’ah del ciclo mestruale. Poi, per sessantasei giorni successivi, avrà un periodo di attesa durante il quale il suo sangue è ritualmente puro.
Porterà poi un olocausto e un sacrificio espiatorio, dopodiché viene reintegrata alla “purezza rituale”. Qual è il significato di queste leggi? Perché il parto rende la madre tame’ah (di solito tradotto come “ritualmente impura”, ma meglio compreso come “una condizione che impedisce o esonera da un incontro diretto con la santità”)? E perché il periodo dopo il parto di una femmina è doppio rispetto a quello di un maschio?
C’è la tentazione di vedere queste leggi come intrinsecamente al di là della comprensione umana. Diverse affermazioni rabbiniche sembrano dire proprio questo. In realtà, non è così, come Maimonide spiega a lungo nella Guida dei Perplessi. Certamente, non possiamo mai sapere – specificamente per quanto riguarda le leggi che hanno a che fare con la kedushà (santità) e la taharà (purezza) – se la nostra comprensione sia corretta. Ma non siamo per questo costretti ad abbandonare la nostra ricerca di comprensione, anche se qualsiasi spiegazione sarà al massimo speculativa e provvisoria.
Il primo principio essenziale per comprendere le leggi di purezza e impurità rituale è che Dio è vita. L’ebraismo è un rifiuto profondo dei culti, antichi e moderni, che glorificano la morte. Le grandi piramidi d’Egitto erano tombe grandiose. Arthur Koestler* notò che senza la morte “le cattedrali crollano, le piramidi svaniscono nella sabbia, i grandi organi diventano silenziosi”.
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Freud coniò la parola thanatos per descrivere il carattere orientato alla morte della vita umana. L’ebraismo è una protesta contro le culture incentrate sulla morte. “Non sono i morti che lodano il Signore, né quelli che scendono nel silenzio” (Salmo 114). “Qual è il profitto della mia morte, se scendo nella fossa? Può forse la polvere riconoscerti? Può proclamare la tua verità?” (Salmo 30). Quando apriamo un Sefer Torà diciamo: “Voi tutti che vi aggrappate al Signore vostro Dio siete vivi oggi” (Deuteronomio 4:4). La Torà è un albero di vita. Dio è il Dio della vita. Come disse Mosè in due parole memorabili: “Scegli la vita” (Deuteronomio 30:19).
Ne consegue che la kedushà (santità) – un punto nel tempo o nello spazio dove ci troviamo nella presenza non mediata di Dio – implica una coscienza suprema della vita. Ecco perché il caso paradigma della tumah è il contatto con un cadavere. Altri casi di tumah includono malattie o emissioni corporee che ci ricordano la nostra mortalità. Il dominio di Dio è la vita. Perciò non può essere associato in alcun modo a segni di morte.
Questo è il modo in cui Yehudah Halev (rabbino 1075-1141) spiega le leggi di purezza: Un corpo morto rappresenta il massimo grado di perdita di vita, e un arto lebbroso è come se fosse morto. Lo stesso vale per la perdita di seme, perché era stato dotato di potere vitale, capace di generare un essere umano. La sua perdita quindi costituisce un contrasto con ciò che è vivo e che respira. (Il Kuzari, II:60)
Le leggi di purezza si applicano esclusivamente a Israele, sostiene Halevi, proprio perché l’ebraismo è la religione suprema della vita, e i suoi aderenti sono quindi iper sensibili anche alle più sottili distinzioni tra vita e morte.
Un secondo principio, altrettanto sorprendente, è la sensibilità acuta che l’ebraismo mostra verso la nascita di un bambino. Nulla è più “naturale” della procreazione. Ogni essere vivente vi si dedica. I sociobiologi arrivano al punto di affermare che un essere umano è il modo in cui un gene crea un altro gene. Al contrario, la Torà si dilunga nel descrivere come molte delle eroine della Bibbia – tra cui Sara, Rebecca, Rachel, Channa e la donna Sunamita – fossero sterili e abbiano avuto figli solo grazie a un miracolo.
Chiaramente la Torà intende trasmettere un messaggio qui, ed è inequivocabile. Essere ebrei significa sapere che la sopravvivenza non è solo una questione di biologia. Ciò che altre culture possono considerare naturale è per noi un miracolo. Ogni bambino ebreo è un dono di Dio. Nessuna fede ha preso i bambini più seriamente o ha dedicato maggiori sforzi all’educazione della generazione futura. Il parto è meraviglioso. Essere genitori è ciò che più ci avvicina a Dio stesso. Questo, incidentalmente, è il motivo per cui le donne sono più vicine a Dio degli uomini, perché esse, a differenza loro, sanno cosa significa portare nuova vita da sé, come Dio porta vita da Sé. L’idea è espressa in modo splendido nel versetto in cui, lasciando l’Eden, Adamo si rivolge a sua moglie e la chiama Chavà “perché è la madre di tutta la vita”.
Possiamo ora speculare sulle leggi relative al parto. Quando una madre dà alla luce, affronta grandi rischi. Nel corso dei secoli, il parto è stato un pericolo mortale sia per la madre che per il bambino, e anche oggi ci sono pericoli sempre presenti per molti. Inoltre, durante il processo del parto, una donna si separa da ciò che fino a quel momento era parte del proprio corpo (un feto, dissero i rabbini, “è come un arto della madre”) e che ora è diventato una persona indipendente. Se ciò vale nel caso di un maschio, vale doppiamente nel caso di una femmina – che, con l’aiuto di Dio, non solo vivrà ma potrà a sua volta, in futuro, diventare fonte di nuova vita. A un certo livello, quindi, le leggi segnalano il distacco della vita dalla vita.
A un altro livello, esse suggeriscono certamente qualcosa di più profondo. Esiste un principio halachico: “Chi è impegnato in una mitzvah è esente da altre mitzvot.” È come se Dio stesse dicendo alla madre: per quaranta giorni nel caso di un maschio, e doppiamente per una femmina (il legame madre-figlia è ontologicamente più forte di quello tra madre e figlio): ti esento dal presentarti davanti a Me nel luogo della santità perché sei pienamente impegnata in uno degli atti più santi in assoluto, nutrire e prenderti cura di tuo figlio. A differenza degli altri, non hai bisogno di visitare il Tempio per essere legata alla vita in tutto il suo splendore sacro. Lo stai vivendo tu stessa, direttamente e con ogni fibra del tuo essere. Giorni, settimane, da ora, verrai a rendere grazie davanti a Me (insieme alle offerte per essere uscita da un momento di pericolo). Ma per adesso, guarda tuo figlio con meraviglia. Perché ti è stato dato un assaggio del grande segreto, altrimenti noto solo a Dio.
Il parto esonera la nuova madre dalla presenza al cospetto di Dio perché la nascita replica l’esperienza del Tempio. Ora sa cosa significa che l’amore genera vita e, in mezzo alla mortalità, essere toccata da un’intuizione dell’immortalità.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
* scrittore, giornalista, saggista, filosofo e parapsicologo ungherese 1905-1983.