Parashat Vayetzé. La debolezza è anche fonte di forza

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Che tipo di uomo era Giacobbe? Questa è la domanda che sorge con intensità capitolo dopo capitolo dalla sua vita. La prima volta che sentiamo una sua descrizione lo chiamano ish tam: un uomo semplice, tranquillo, schietto, onesto. Ma è proprio quello che sembra non essere. Lo abbiamo visto prendere il diritto di primogenitura di Esaù in cambio di una scodella di minestra. Lo abbiamo visto prendere la benedizione di Esaù, con abiti presi in prestito, approfittando della cecità del padre.
Sono episodi preoccupanti. Possiamo leggerli midrashicamente. Il Midrash rende Giacobbe comunque completamente buono ed Esaù completamente cattivo. Rilegge il testo biblico per renderlo coerente con le norme più alte della vita morale. C’è molto da dire a favore di questo approccio.

In alternativa potremmo dire che in questi casi il fine giustifica i mezzi. Nel caso del diritto di primogenitura, Giacobbe avrebbe potuto mettere alla prova Esaù per verificare se gli importava davvero di riceverlo. Dal momento che l’ha ceduto così facilmente, Jacov potrebbe aver avuto ragione nel concludere che doveva andare a qualcuno che l’avrebbe apprezzato. Nel caso della benedizione, Giacobbe stava obbedendo a sua madre, che aveva ricevuto un oracolo divino il cui contenuto diceva che “il maggiore avrebbe servito il minore”.

Eppure il testo resta inquietante. Isacco dice a Esaù: “Tuo fratello è venuto con inganno e ha preso la tua benedizione”. Esaù rispose: per questo è chiamato Giacobbe! Mi ha soppiantato già due volte: si è preso il mio diritto di nascita, e ora si è preso la mia benedizione!” Tali accuse non sono rivolte a nessun altro eroe biblico.

Ma la storia non finisce qui. Nella parashà di questa settimana gli viene praticato un inganno simile. Dopo la sua prima notte di nozze, scopre di aver sposato Leah e non, come pensava, la sua amata Rachel. Si lamenta con Labano: “Che cosa mi hai fatto? Non è stato per Rachel che ti ho servito? Perché allora mi hai ingannato” (Genesi 29:25) Labano risponde: “Da noi non si può dare la minore prima della primogenita”. (Genesi 29:26)

È difficile non vedere tutto ciò come una precisa punizione misura per misura. Il giovane Giacobbe fingeva di essere il maggiore Esaù. Ora la maggiore Leah è stata fatta passare per la giovane Rachel. Qui entra in gioco un principio fondamentale della moralità biblica: come fai tu, così ti sarà fatto.

La rete degli inganni continua. Dopo che Rachel diede alla luce Giuseppe, Giacobbe volle tornare a casa. Visse abbastanza a lungo con Labano. Il suocero lo esortò a rimanere e gli disse di indicare il suo prezzo per la rinuncia alla sua partenza. Giacobbe intraprende allora una linea d’azione straordinaria. Disse a Labano che non voleva alcun compenso e che avrebbe dovuto togliere dal gregge ogni agnello macchiato o striato e ogni capra striata o macchiata. Giacobbe avrebbe tenuto, in seguito per se, come salario tutti i nuovi nati macchiati o striati.

È un’offerta che parla contemporaneamente dell’avidità e dell’ignoranza di Labano. Sembra che egli volesse ottenere la manodopera di Giacobbe quasi per nulla, perché lui non chiese alcun salario e la possibilità che gli animali non macchiati partorissero una prole macchiata sembrava remota.

Giacobbe lo sapeva bene. Come responsabile delle greggi, eseguì un’elaborata procedura che prevede l’uso di rami spellati di pioppo, mandorlo e platano, che mise nell’acqua da bere. Il risultato fu che i greggi produssero effettivamente una prole striata e maculata.

Il modo in cui ciò sia accaduto ha incuriosito non solo i commentatori (che per lo più presunsero che si trattò di un miracolo, il modo in cui Dio aveva assicurato il benessere di Giacobbe), ma anche gli scienziati. Alcuni sostengono che Jacov dovesse avere una conoscenza della genetica. Due pecore non macchiate possono produrre una prole maculata. Giacobbe lo aveva senza dubbio notato nei molti anni trascorsi a prendersi cura dei greggi di Labano.

Altri hanno suggerito che l’alimentazione prenatale può avere un effetto epigenetico, cioè può far esprimere un determinato gene che altrimenti non sarebbe stato espresso. Se i rami spellati di pioppo, mandorlo e platano fossero stati aggiunti all’acqua bevuta dalle pecore, avrebbero potuto influenzare il gene Agouti che determina il colore del pelo di pecore e topi.

Comunque sia andata, il risultato è stato drammatico. Giacobbe si arricchì: In questo modo l’uomo divenne estremamente ricco e arrivò a possedere grandi greggi, schiave e servi, cammelli e asini. (Genesi 30:43)

Inevitabilmente Labano e i suoi figli si sentirono presi in giro. Giacobbe percepì il loro disappunto e, dopo essersi consultato con le sue mogli e aver ricevuto il consiglio di andarsene da Dio stesso, partì mentre Labano era via a tosare le pecore. Alla fine il suocero scoprì che Giacobbe se n’era andato e lo inseguì per sette giorni, raggiungendolo sulle montagne di Ghilad.

Il testo è carico di accuse e controaccuse. Labano e Giacobbe si sentono entrambi presi in giro. Entrambi credono che i greggi e le mandrie siano loro di diritto. Entrambi si considerano vittime dell’inganno dell’altro. Il risultato finale è che Giacobbe si ritrovò costretto a scappare da Labano, come in precedenza era stato costretto a scappare da Esaù, in entrambi i casi per salvaguardare il rischio di perdere la sua vita.

Quindi la domanda ritorna. Che tipo di uomo era Giacobbe? Sembra tutt’altro che un tam, un uomo schietto. E sicuramente questo non è il modo in cui si comporta un modello religioso – in modo tale che prima suo padre, poi suo fratello, poi suo suocero, lo accusano di inganno. Che tipo di storia ci racconta la Torà nel modo in cui narra la vita di Giacobbe?

Un modo per avvicinarsi alla risposta è quello di guardare a un personaggio specifico – spesso una lepre o, nella tradizione afroamericana, “Brer Rabbit” – nei racconti popolari dei popoli oppressi. Henry Louis Gates, critico letterario americano, ha sostenuto che queste figure rappresentano “il modo creativo in cui la comunità degli schiavi rispondeva al fallimento dell’oppressore, nell’affrontarli come esseri umani creati a immagine di Dio”. Hanno “un corpo fragile, ma una mente ingannevolmente forte”. Usando la loro intelligenza per superare gli avversari più forti, sono in grado di decostruire e sovvertire, in piccolo, la gerarchia di dominio che favorisce i ricchi e i forti. Rappresentano la libertà momentanea di chi non è libero, una protesta contro le ingiustizie casuali del mondo.

Questo, mi sembra, è ciò che Jacov rappresenta in questa prima fase della sua vita. Entra nel mondo come il più giovane di due gemelli. Suo fratello è forte, rubicondo, peloso, abile cacciatore, uomo di aperta campagna, mentre Giacobbe è tranquillo, studioso. Quindi deve affrontare il fatto che suo padre ama suo fratello più di lui. Poi si ritrovò alla mercé di Lavan, una figura possessiva, sfruttatrice e ingannevole che approfitta della sua vulnerabilità. Jacov è l’uomo che, come quasi tutti noi prima o poi, scopre che la vita è ingiusta.

Giacobbe rappresenta il rifiuto dei deboli di accettare la gerarchia creata dai forti. I suoi atti sono una forma di sfida, un’insistenza sulla dignità del debole (rispetto a Esaù), del meno amato (da Isacco) e del rifugiato (nella casa di Labano). In questo senso egli è un elemento di ciò che, storicamente, significava essere ebreo.

Ma il Giacobbe che vediamo in questi capitoli non è la figura che, in definitiva, siamo chiamati a emulare. Possiamo capire perché. Giacobbe vince le sue battaglie con Esaù e Labano, ma a costo di dover eventualmente fuggire per paura della sua vita. L’astuzia è solo una soluzione temporanea.

È solo più tardi, dopo il suo incontro di lotta con l’angelo, che riceve un nuovo nome – cioè una nuova identità – come Israele, “perché hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto”. Come Israele non ha paura di affrontare le persone faccia a faccia. Non ha più bisogno di sconfiggerli con stratagemmi intelligenti, ma in definitiva inutili. I suoi figli alla fine diventeranno persone la cui dignità risiede nell’indissolubile patto che stipulano con Dio.

Tuttavia, possiamo vedere qualcosa della prima parte di vita di Giacobbe, in una delle caratteristiche più notevoli della storia ebraica. Per quasi duemila anni gli ebrei sono stati guardati dall’alto in basso come dei paria, eppure si sono rifiutati di interiorizzare questa immagine, proprio come Giacobbe si è rifiutato di accettare le gerarchie di potere o di affetto che lo condannavano a essere un semplice ripiego. Gli ebrei nel corso della storia, come Giacobbe, non hanno fatto affidamento sulla forza fisica o sulla ricchezza materiale, ma sulle qualità della mente.

Alla fine, però, Giacobbe dovrà diventare Israele. Perché non è il vincitore arguto, ma l’eroe dotato di coraggio morale che si erge agli occhi dell’umanità e di Dio.

Ciò che Jacov dimostra, con la sua assoluta arguzia, è che la forza dei forti può anche essere la loro debolezza. Così come è stato quando Esaù rientrò esausto dalla caccia, affamato, fu disposto impulsivamente a barattare il suo diritto di primogenitura con un pò di zuppa; così avvenne quando il cieco Isacco si preparò a benedire il figlio che gli avrebbe portato da mangiare la cacciagione; così accade quando Labano colse la prospettiva di ottenere gratuitamente il lavoro di Giacobbe. Ogni forza ha il suo tallone d’Achille, la sua debolezza, e questa può essere sfruttata dai deboli per ottenere la vittoria sui forti.

Di Rabbi Jonathan Sacks zzl