Parashat Shelach Lechà. La fede è il coraggio di rischiare

Appunti di Parshà a cura di Lidia Calò
Uno dei discorsi più potenti che abbia mai sentito è stato tenuto dal Rebbe dì Lubavitch il rabbino Menachem Mendel Schneerson, nella parashà di questa settimana: la storia delle spie. Per me, ha significato a dir poco un cambiamento di vita.

Il Rebbe fece delle domande ovvie. Come hanno potuto dieci spie tornare indietro con un rapporto demoralizzante e disfattista? Come hanno potuto dire, non possiamo vincere, le persone sono più forti di noi, le loro città sono ben fortificate, loro sono giganti e noi siamo cavallette?

Avevano visto con i propri occhi come Dio aveva mandato una serie di piaghe che misero in ginocchio l’Egitto, il più forte e longevo di tutti gli imperi del mondo antico. Avevano visto l’esercito egiziano con la sua tecnologia militare all’avanguardia, il carro trainato da cavalli, annegare nel Mar Rosso mentre gli israeliti lo attraversavano sulla terraferma. L’Egitto era molto più forte dei cananei, dei perizziti, dei gebusei e di altri regni minori che avrebbero dovuto affrontare per conquistare il paese. Tutto questo non era un ricordo lontano. Era successo poco più di un anno prima.

Inoltre, sapevano già che, lungi dall’essere giganti che affrontano cavallette, la gente del paese era terrorizzata dagli israeliti. Lo avevano detto loro stessi mentre cantavano la cantica del del mare (Shirat hayam): “I popoli hanno sentito e ora tremano; il terrore ha colto gli abitanti della Filistea. Allora i capi di Edom furono presi dal panico; un tremore immobilizzò tutti potenti di Moab; tutti gli abitanti di Canaan si dissolsero. Possa il terrore piombare su di loro; nel vedere la grandezza del tuo braccio Eterno si ammutulirono come una pietra”. (Esodo 15:14-16)

Il popolo del paese aveva paura degli israeliti. Perché allora le spie avevano paura di loro?
Inoltre, continuava il Rebbe, le spie non erano persone scelte a caso tra la popolazione. La Torà afferma che erano “tutti uomini che erano capi del popolo di Israele”. Erano leader. Non erano persone influenzabili alla leggera dalla paura.

Le domande sono semplici, ma la risposta che il Rebbe diede è stata del tutto inaspettata. Le spie non avevano paura del fallimento, disse. Avevano paura del successo.

Qual era adesso la loro situazione? Stavano mangiando la manna dal cielo. Stavano bevendo l’acqua di un pozzo miracoloso. Erano circondati da Nubi di Gloria. Erano accampati intorno al Santuario. Erano in continuo contatto con la Shechinah. Mai un popolo aveva vissuto così vicino a Dio.

Quale sarebbe stata la loro situazione se fossero entrati nel paese? Avrebbero dovuto combattere battaglie, mantenere un esercito, creare un’economia, coltivare la terra, preoccuparsi se ci sarebbe stata abbastanza pioggia per produrre un raccolto e tutte le altre mille distrazioni che derivano dal vivere nel mondo. Che ne sarebbe stata della loro vicinanza a Dio? Sarebbero stati preoccupati per attività mondane e materiali. Qui potevano trascorrere l’intera vita imparando la Torà, illuminati dalla radiosità del Divino. Là non sarebbero stati che una nazione in più in un mondo di nazioni, con lo stesso tipo di problemi economici, sociali e politici che ognuna di loro doveva affrontare.

Le spie non avevano paura del fallimento. Avevano paura del successo. Il loro errore è stato l’errore di uomini molto santi. Volevano trascorrere la loro vita nella più stretta vicinanza possibile a Dio. Quello che non capivano era che Dio cerca, nella frase chassidica, “una dimora nei mondi inferiori”. Una delle grandi differenze tra l’ebraismo e le altre religioni è che mentre altri cercano di elevare le persone in paradiso, l’ebraismo cerca di portare il paradiso sulla terra.

Gran parte della Torà riguarda cose non convenzionalmente considerate affatto religiose: rapporti di lavoro, agricoltura, previdenza sociale, prestiti e debiti, proprietà terriera e così via. Non è difficile fare un’esperienza religiosa intensa nel deserto, o in un ritiro monastico, o in un ashram. La maggior parte delle religioni hanno luoghi santi e persone sante che vivono lontano dallo stress e dalle tensioni della vita quotidiana. C’era una di queste sette ebraiche a Qumran, a noi nota attraverso i Rotoli del Mar Morto, e ce n’erano certamente altre. Su questo non c’è niente di insolito.

Ma questo non è il progetto ebraico, la missione ebraica. Dio voleva che gli israeliti creassero una società modello dove gli esseri umani non fossero trattati come schiavi, dove i governanti non fossero adorati come semidei, dove la dignità umana fosse rispettata, dove la legge fosse amministrata in modo imparziale sia ai ricchi che ai poveri, dove nessuno fosse indigente, o abbandonato all’isolamento, nessuno doveva essere al di sopra della legge e nessun regno della vita era una zona libera dalla moralità. Ciò richiedeva la creazione di una società e una società ha bisogno di una terra. Richiede un’economia, un esercito, campi e greggi, lavoro e impresa. Tutti questi, nel giudaismo, diventano modi per portare la Shehinà negli spazi condivisi della nostra vita collettiva.

Le spie temevano il successo, non il fallimento. È stato l’errore di uomini profondamente religiosi. Ma è stato un errore.

Questa è la sfida spirituale del più grande evento in duemila anni di storia ebraica: il ritorno degli ebrei alla terra – e allo Stato – di Israele. Forse mai prima e mai da allora c’è stato un movimento politico accompagnato da tanti sogni come il sionismo. Per alcuni fu il compimento di visioni profetiche, per altri la realizzazione secolare di persone che avevano deciso di prendere in mano la storia. Alcuni come Tolstoj lo vedevano come una riconnessione della terra con il suolo, altri in (un’affermazione nietzschiana) lo vedevano come una forma di volontà e potere. Alcuni lo videro come un rifugio dall’antisemitismo europeo, altri come il primo fiorire della redenzione messianica. Ogni pensatore sionista aveva la sua versione dell’utopia e in gran parte ognuna di esse si è avverata.

Non è difficile trovare Dio nel deserto, se non mangi del lavoro delle tue mani e se ti affidi a Dio per combattere le tue battaglie per te. Dieci delle spie, secondo il Rebbe, cercarono di vivere in quel modo per sempre. Ma questo, suggerì il Rebbe, non è ciò che Dio vuole da noi. Vuole che ci impegniamo nel mondo. Vuole che guariamo i malati, nutriamo gli affamati, combattiamo l’ingiustizia con tutto il potere della legge e combattiamo l’ignoranza con l’educazione universale. Vuole che mostriamo cosa significa amare il prossimo e lo straniero, e dire, come disse Rabbi Akiva: “Amata è l’umanità perché ognuno di noi è creato a immagine di Dio”.

La spiritualità ebraica vive in mezzo alla vita stessa, alla vita della società e delle sue istituzioni. Per crearla dobbiamo combattere due tipi di paura: la paura del fallimento e la paura del successo. La paura del fallimento è comune; la paura del successo è più rara ma non meno debilitante. Entrambi derivano dalla riluttanza a correre rischi. La fede è il coraggio di rischiare. Non è certezza; è la capacità di convivere con l’incertezza. È la capacità di ascoltare Dio che ci dice come disse ad Abramo: “Cammina davanti a me” (Genesi 17:1).

Il Rebbe viveva quello che insegnava. Mandò emissari praticamente in ogni luogo della terra dove c’erano ebrei. In tal modo, ha trasformato la vita ebraica. Sapeva che stava chiedendo ai suoi seguaci di correre dei rischi, andando in luoghi in cui l’intero ambiente sarebbe stato impegnativo in molti modi, ma aveva fede in loro e in Dio e nella missione ebraica il cui posto è nella pubblica piazza dove condividiamo la nostra fede con gli altri e farlo in modi profondamente pratici.

È impegnativo lasciare il deserto e andare nel mondo con tutte le sue prove e tentazioni, ma è lì che Dio vuole che siamo, portando il suo spirito la dove gestiamo un’economia, un sistema di welfare, un sistema giudiziario, un servizio sanitario e un esercito, curando alcune delle ferite del mondo e portando, in luoghi spesso avvolti nell’oscurità, frammenti di luce divina.

Ma Israele è sempre stato qualcosa di più semplice e basilare. Gli ebrei hanno conosciuto praticamente ogni destino e circostanza tra la tragedia e il trionfo nei quasi quattromila anni della loro storia, e hanno vissuto in quasi ogni luogo della terra. Ma in tutto quel tempo c’è stato solo un posto dove poter fare ciò che erano chiamati a fare fin dall’alba della loro storia e li avrebbero dovuto costruire la propria società in accordo con i loro ideali più alti, una società che sarebbe stata diversa da quella dei loro vicini. Sarebbe diventata il modello di un’economia, di un sistema educativo e dell’amministrazione del benessere, sarebbe diventata il veicolo per portare la presenza divina sulla terra.

Di rav Jonathan Sacks zzl