Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Sì, Mosè fece cose che non avrebbe dovuto fare. Colpì la roccia, disse “noi” invece di “Dio”, perse la pazienza col popolo. Ma la vera storia è quella di Mosè essere umano, travolto dal dolore, vulnerabile, esposto, immerso in un vortice di emozioni, improvvisamente privato della presenza di sua sorella che era stata la nota di fondo più profonda della sua vita.
È una scena che ha ancora il potere di scioccare e turbare.
Il popolo si lamenta. Non c’è acqua. È una lamentela antica e prevedibile. È ciò che accade nel deserto.
Mosè avrebbe dovuto essere in grado di gestirla con facilità. Aveva già affrontato sfide ben più dure nel corso della sua vita. Eppure, all’improvviso, alle Mei Merivà (“acque del contendere”), esplose in una rabbia piena di invettive: “Ascoltate, o ribelli! Potremo noi forse far uscire per voi acqua da questa roccia?”. Mosè alzò la mano e colpì la roccia due volte con il bastone. (Numeri 20:10–11)
In commenti passati ho sostenuto che Mosè non peccò. Semplicemente, era il leader giusto per la generazione che uscì dall’Egitto, ma non quello adatto per i loro figli, che avrebbero attraversato il Giordano, conquistato la terra e costruito una società. Il fatto che non gli fu permesso di guidare la nuova generazione non fu un fallimento, bensì un’inevitabilità. Come gruppo di schiavi di fronte alla libertà, a una nuova relazione con Dio e a un viaggio difficile, sia fisicamente che spiritualmente, i figli d’Israele avevano bisogno di un leader forte, capace di affrontare loro e Dio. Ma, in quanto costruttori di una nuova società, avevano bisogno di una guida che non facesse il lavoro per loro, bensì li ispirasse a farlo da soli.
Il volto di Mosè era come il sole, quello di Giosuè come la luna (Bava Batra 75a).
La differenza è che la luce del sole è così forte che non lascia nulla da fare a una candela, mentre una candela può illuminare quando l’unica altra luce è quella lunare. Giosuè diede potere alla sua generazione, più di quanto avrebbe potuto fare una figura forte come Mosè.
Ma c’è un’altra questione legata all’episodio che leggiamo questa settimana: Cosa rese questa prova diversa? Perché Mosè perse il controllo proprio allora? Perché in quel momento? In quel luogo?
Aveva già affrontato una sfida simile in passato. La Torà menziona due episodi precedenti.
Uno avvenne a Mara, quasi subito dopo la divisione del Mar Rosso. Il popolo trovò acqua, ma era amara. Mosè pregò Dio, Dio gli indicò come addolcirla, e l’episodio si concluse.
Il secondo episodio avvenne a Refidim (Esodo 17:1–7). Questa volta non c’era proprio acqua. Mosè rimproverò il popolo: «Perché litigate con me? State forse mettendo alla prova Dio?». Poi si rivolse a Dio dicendo: «Che cosa devo fare con questo popolo? Ancora un po’ e mi lapideranno!». Dio gli disse di andare a una roccia a Chorev, prendere il suo bastone e colpire la roccia. Mosè lo fece, e ne uscì acqua. C’erano tensione e drammaticità, ma nulla di paragonabile all’angoscia emotiva che emerge nella parashà di Chukat. Eppure Mosè, ormai con quarant’anni di esperienza, avrebbe dovuto affrontare questa sfida con più calma. Ci era già passato.
Il testo ci dà un indizio, ma in modo così discreto che si può facilmente non notarlo: “Nel primo mese tutta la comunità arrivò nel deserto di Zin, e si fermarono a Kadesh. Là morì Miriam e là fu sepolta. E non c’era acqua per la comunità” (Numeri 20:1–2) Molti commentatori vedono il collegamento tra questo versetto e ciò che segue nel fatto che l’acqua scomparve improvvisamente dopo la morte di Miriam. La tradizione parla di un pozzo miracoloso che accompagnò Israele nel deserto per merito di Miriam. Quando morì, il pozzo cessò di dare acqua.
Ma c’è anche un’altra possibile lettura del legame: Mosè perse il controllo perché Miriam, sua sorella, era appena morta. Era in lutto per la sorella maggiore. Perdere un genitore è difficile, ma in certi aspetti è anche più dura la perdita di un fratello o di una sorella. Sono la tua generazione. Senti l’Angelo della Morte avvicinarsi. Ti confronti con la tua mortalità.
Miriam era molto più di una sorella per Mosè.
Fu lei, ancora bambina, a seguire la cesta di vimini con il neonato Mosè mentre galleggiava sul Nilo. Ebbe il coraggio e l’ingegnosità di avvicinarsi alla figlia del faraone e suggerirle di assumere una nutrice ebrea, garantendo così che Mosè crescesse conoscendo la sua famiglia, il suo popolo, la sua identità.
In un passo straordinario, i Saggi raccontano che Miriam convinse suo padre Amram, il più grande studioso della sua generazione, ad annullare il suo decreto secondo cui gli uomini ebrei dovevano divorziare e non avere più figli, poiché ogni bambino aveva il 50% di possibilità di essere ucciso. Miriam disse: “Il tuo decreto è peggio di quello del faraone. Lui ha decretato solo contro i maschi, tu anche contro le femmine. Lui intende togliere loro la vita in questo mondo; tu vuoi negarla anche nel Mondo a Venire”. Amram riconobbe la superiorità del suo ragionamento. I coniugi si riunirono.
Yocheved, sua moglie, rimase incinta e nacque Mosè. Questo Midrash implica chiaramente che una bambina di sei anni aveva più fede e saggezza del leader spirituale della generazione!
Mosè sapeva bene cosa doveva a sua sorella. Secondo il Midrash, senza di lei non sarebbe mai nato. Secondo il testo semplice della Torà, non avrebbe mai conosciuto i suoi veri genitori né il suo popolo. Sebbene fossero stati separati durante gli anni di esilio a Midian, una volta tornato, Miriam lo accompagnò per tutta la sua missione. Guidò le donne nel canto al Mar Rosso.
L’unico episodio che sembra gettarla in una luce negativa – quando «parlò contro Mosè a causa della moglie cuscita» (Numeri 12:1) e fu punita con la lebbra – fu interpretato più positivamente dai Saggi. Essi dissero che Miriam criticava Mosè per aver interrotto le relazioni coniugali con Tzipporà. Mosè lo aveva fatto per rimanere in uno stato di prontezza per la comunicazione divina. Miriam comprendeva la sofferenza e il senso di abbandono di Tzipporà. Inoltre, anche lei e Aharon avevano ricevuto rivelazioni divine, ma non erano stati obbligati alla continenza. I Saggi suggeriscono che forse aveva torto, ma non agì per gelosia verso Mosè, bensì per empatia verso la cognata.
Quindi non fu soltanto la richiesta d’acqua del popolo a far perdere il controllo a Mosè, ma il dolore profondo per la perdita della sorella.
Il popolo aveva perso l’acqua, ma Mosè aveva perso la sorella che l’aveva vegliato da piccolo, lo aveva guidato, sostenuto, aiutato a portare il peso della leadership come guida delle donne.
È un momento che ci ricorda le parole nel libro dei Giudici, dette dal generale Barak alla giudice Deborah: “Se tu verrai con me, verrò; ma se non verrai, non andrò» (Giudici 4:8). Il legame tra Barak e Deborah era molto meno profondo di quello tra Mosè e Miriam, eppure Barak riconosceva la sua dipendenza da una donna saggia e coraggiosa. Mosè poteva sentire di meno?
Il lutto ci rende vulnerabili.
Nel mezzo della perdita è difficile controllare le emozioni. Si commettono errori. Si agisce impulsivamente. Si giudica male. Sono reazioni comuni anche per noi comuni mortali.
Nel caso di Mosè, però, c’è un fattore in più: era un profeta, e il dolore può oscurare o eclissare lo spirito profetico. Maimonide risponde alla nota domanda su come mai Giacobbe, profeta, non sapesse che suo figlio Yosef era ancora vivo, con la risposta più semplice: Il dolore annulla la profezia. Per ventidue anni, in lutto per il figlio scomparso, Giacobbe non poté ricevere la parola divina.
Mosè, il più grande dei profeti, rimase in contatto con Dio – fu Dio, dopotutto, a dirgli di “parlare alla roccia”. Ma in qualche modo il messaggio non penetrò del tutto nella sua coscienza. Questo fu l’effetto del dolore.
Quindi i dettagli sono, in verità, secondari rispetto al dramma umano di quel giorno.
Sì, Mosè fece cose che non avrebbe dovuto fare. Colpì la roccia, disse “noi” invece di “Dio”, perse la pazienza col popolo. Ma la vera storia è quella di Mosè essere umano, travolto dal dolore, vulnerabile, esposto, immerso in un vortice di emozioni, improvvisamente privato della presenza di sua sorella che era stata la nota di fondo più profonda della sua vita.
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La storia del momento in cui Mosè perse fiducia e calma non riguarda solo la leadership o una crisi, né un bastone e una roccia, ma soprattutto una grande donna ebrea, Miriam, apprezzata pienamente solo quando non c’era più.
Scritto da rabbi Jonathan Sacks nel 2012
(Foto: Tintoretto, Mosé colpisce la roccia)