Gabriele Nissim

Memoriale, gran finale di Jewish in the city con Gariwo e “Spegnere l’odio e accendere la speranza”

di Roberto Zadik e Paolo Castellano
Gran finale della prima edizione invernale della kermesse “Jewish in the city” al Memoriale della Shoah con il prestigioso convegno “Spegnere l’odio e accendere la speranza” che ha chiuso con successo il festival. L’ultimo appuntamento della manifestazione, alla quale stando ai dati forniti dagli organizzatori, hanno partecipato circa 2mila e 500 persone creando oltre 50mila interazioni sui social network, è stato introdotto dal presidente della Fondazione Memoriale della Shoah Roberto Jarach. “Sono molto contento del successo di un Festival” ha specificato Jarach “che giunto alla sua quinta edizione come il Memoriale guarda al futuro e alle giovani generazioni perché grazie a loro possiamo sperare di vedere una società migliore  e costruire per i figli e i nipoti. Ma come si può fermare l’odio e da cosa parte e come si diffonde nel web e fra le giovani generazioni?

Gabriele Nissim
Organizzato e moderato da Nissim, presidente di Gariwo, egli nel suo intervento ha approfondito sviluppo e analisi dei sentimenti di odio, populismo, linguaggio aggressivo addentrandosi nella cosiddetta “cultura del nemico”. “Viviamo in un  momento storico dove sono molto diffusi questi sentimenti ostili “ ha sottolineato “e vi è una sorta di strana euforia e di anelito alla libertà dal diverso, dallo straniero chiudendosi nei nazionalismi. Prima di tutto siamo americani, italiani, affermando identità e particolarismi”. “Stiamo attraversando una sorta di umanesimo rovesciato, dove si può dire tutto di tutti, in un’esaltazione del pensiero libero ma senza controllo, mobilitandosi contro un nemico comune”.

Salvatore Natoli
Successivamente Natoli ha invitato invece a un pensiero su come contrastare questi sentimenti di avversità fornendo suggerimenti e suggestioni interessanti su come poterli contrastare reagendo concretamente e individualmente. Sottolineando l’importanza di un pensiero critico, indipendente, di un “dubbio sano” egli ha messo in risalto la centralità dell’educazione e della formazione che tuteli dalla paura e dal pregiudizio e dalle seduzioni del potere che seduce invitando la società all’edonismo e all’egoismo e alla trasgressione e questo produce serie conseguenze”. Egli ha poi individuato le cause dell’attuale situazioni, il problema di un vocabolario di slogan, della “colpevolizzazione dello straniero o di elite plutomassonica, dell’unificazione dei pregiudizi verso “maschere e misteriosi colpevoli”. Un invito efficace e partecipato quello di Natoli alla conoscenza, a sviluppare “un ampio spettro del sapere per avere la percezione del pericolo che stiamo vivendo”. Condannando fake news e “educazione alla chiacchiera  e alle false idee” che avviene in rete, egli ha sollecitato a mobilitarsi nel web contro questi fenomeni.

Liliana Segre
Molto efficace e lucido l’intervento della senatrice Liliana Segre che da tempo è “impegnata nella battaglia in Parlamento contro l’odio” come ha ricordato in apertura del suo intervento. Rievocando la propria esperienza di “vittima dell’odio” ha sottolineato quanto in questi anni “abbia sempre cercato di descrivere con pacatezza e con la forza la mia esperienza anche trattando delle sofferenze della Shoah che come diceva Primo Levi”. “Nei miei anni come testimone della Shoah ho sempre cercato di evitare le parole di odio perché esse seminano altro odio” ha suggerito “invitando i giovani a mettere da parte il rancore per trovare la forza in sé stessi per affrontare le avversità”. Mettendo in guardia dai pericoli non solo dell’odio ma anche dell’indifferenza e lo stretto legame fra questi due elementi, la Segre ha evidenziato la priorità dell’etica e della convivenza.

È poi stato il turno di Piero Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, che ha illustrato ai presenti come l’odio stia trovando ampi spazi nella modernità attraverso le nuove tecnologie. Barbetta ha spiegato che nel pianeta si stanno creando diversi network collegati tra loro: «Viviamo in un’epoca tecnocratica in cui i soggetti non sono più delle persone ma dei network connessi tra loro. Esistono infatti i network dei farmaci, del terrorismo, delle guerre, delle nuove invenzioni, dei virus, delle macchine, etc…». Secondo Barbetta, questi network stimolano la passività delle persone che osservano il mondo senza intervenire, come una barca alla deriva.

Il network inoltre produce un modello antagonista che si concretizza nella creazione di un nemico. Allo stesso modo l’individuazione di un’antagonista crea un network ancora più potente. «La Rete ci cattura perché permette a chi si sente debole di esprimere tutto il suo rancore. Per dissipare l’odio online è allora necessario diffondere un bisogno di speranza». Citando William Blake, Barbetta ha affermato che il bene viene fatto nei minuti particolari: «Quando un giusto salva qualcuno non si chiede di quale etnia sia. Il giusto esercita un rispetto e coraggio in un momento particolare. Il giusto non ha una vita irreprensibile ma è ricordato per il gesto che fa. La sua esistenza viene giudicata per quei momenti particolari in cui ha fatto del bene».

Anche secondo Victor Magiar, esperto di comunicazione, la Rete sta diventando un pericoloso veicolo di fake-news che mira a costruire il mito di un nemico comune, oggi identificato con il migrante. «Quando i nazisti hanno pensato di attuare la Shoah, pensavano di fare qualcosa di giusto. Quando si vuole far del male, si cerca sempre una giustificazione. Al giorno d’oggi sta succedendo la stessa cosa con i nostri giornali, dove i temi sui migranti vengono stravolti», ha spiegato Magiar, aggiungendo che servirebbe un’informazione più selezionata. Egli ha poi detto che le notizie false si moltiplicano perché viviamo in “un’epoca veloce e stupida come i computer”. «Oggi essere stranieri è un fatto negativo e pericoloso. Nei sistemi totalitari si cercava l’estraneo in casa, l’infezione. Per smontare questi miti bisogna spiegare bene la verità», ha affermato Magiar.

 

Haim Baharier ha invece insistito sull’importanza dell’educazione delle nuove generazioni, perché solo individuando il bene si può sperare in un’umanità migliore. «È necessario uno sforzo educativo e un ritorno alla persona. Mi sembra di sentire “ritornare a noi!” di Kierkegaard», ha detto Baharier.

Dopo una citazione talmudica, egli ha poi affermato che il guaio degli ebrei è di non vedere davanti a sé il male: «Apprezzo il lavoro di Gariwo nell’individuare il bene nella storia, ma ricordiamoci anche di chi ha fatto del male».

 «Nella mentalità occidentale cristiana, la speranza sarebbe legata a colui che è disposto al sacrificio, il rassegnato. Il silenzio di Isacco è la fiducia nel genere umano. Guarda suo padre e sembra dirgli “tu non mi ammazzi”. Questo atteggiamento è estraneo alla cultura di oggi. Forse era questo che intendeva Kierkegaard», ha spiegato Baharier, aggiungendo che è necessario trasmettere una fiducia personale a livello collettivo e stimolare la responsabilità. «C’è la necessità di individuare il male e non dimenticarlo. Questo vale per tutti noi. Dobbiamo ricordare», egli ha concluso.