Jewish in the City #150: con il Bené Berith si parla di Integrazione

Jewish in the City

di Nathan Greppi

RadiciMilano città dalle molte edoth, gruppi di ebrei provenienti dalle diverse parti del mondo, dalla Germania e dalla Polonia, negli anni Trenta, dai Paesi arabi, negli Cinquanta/Settanta. Ma gli ebrei in Italia, come e quando si sono integrati con gli altri italiani? Qual è stato il percorso umano e sociale? Chi e perché ha posto degli ostacoli a questo cammino?

Lunedì 30 Maggio il Tempio di Via Guastalla ha ospitato, in contemporanea con un dibattito sul rabbinato milanese, una conferenza sull’integrazione ebraica in Italia, organizzata all’interno del Festival Jewish in the City #150.

A introdurre la conferenza è stato Paolo Foa, Presidente della sezione milanese di Bené Berith, che ha portato tre ospiti per esporre il modello di integrazione ebraico-italiano da tre punti di vista: halachico, storico e sociologico. Dopodiché ha passato la parola ai tre ospiti.

Alberto Cavaglion, docente di storia all’Università di Firenze  si è concentrato sull’integrazione degli ebrei italiani nell’800. «Si può parlare di “anomalia italiana”, nel senso che la storia degli ebrei italiani è diversa da quella di altri gruppi, in quanto si sono integrati attraverso una sorta di “nazionalizzazione parallela”. Mentre era in prigione, Antonio Gramsci aveva scritto su come nello Stato italiano gli ebrei avessero perso la loro individualità, allo stesso modo in cui i veneti o i piemontesi avevano perso i loro dialetti. Ciò ha fatto sì che nel nuovo Stato italiano ci fosse molto meno antisemitismo rispetto a Paesi come la Germania e la Russia, dove questo processo non è avvenuto. – ha detto Cavaglion – Oggi tendiamo a dimenticare che, nei primi anni di vita del nostro Paese, c’era stato un presidente del consiglio ebreo (Alessandro Fortis), e anche il primo sindaco di Roma sotto il Regno d’Italia lo era (Ernesto Nathan), e tanti ebrei avevano combattuto al fianco di Garibaldi e della dinastia dei Savoia. Quando pensiamo al processo di integrazione sotto il Regno d’Italia siamo abituati a giudicarlo per come è finito, ma chi studia storia dovrebbe cercare di capire ogni punto di vista ed essere, per quanto ci è possibile, più distaccati». Cavaglion ha spiegato poi che la diversità, oggi ritenuta un fattore positivo per ogni società democratica, prima della Shoah aveva connotazioni negative, l’uniformità era considerata sinonimo di armonia. Anche la parola “razza”, oggi ritenuta discriminatoria tanto che c’è chi vorrebbe toglierla dalla costituzione, un tempo era considerata normale, e tra i primi e considerarla offensiva ci furono anche i primi sionisti.

Betti Guetta, Ricercatrice del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), si è invece focalizzata sull’integrazione ebraica nel secondo dopoguerra: alla fine degli anni ’40, a Milano erano rimasti pochissimi ebrei, ma è riuscita rinascere soprattutto grazie all’arrivo di molti ebrei emigrati soprattutto dai Paesi arabi e dall’Iran, tanto che nel 1975 la Comunità contava oltre 9000 aderenti. Tuttavia, ciò ha portato a una perdita dell’omogeneità, dal momento che i nuovi arrivati portavano con sé lingue e tradizioni diverse. Va inoltre tenuto in considerazione che gli ebrei, come la maggior parte dei cittadini italiani, fanno pochi figli.  Guetta sostiene che gli ebrei, che un tempo costituivano un elité socio-culturale, oggi sono più in crisi; a tal proposito, ha detto, «Spero che i problemi della Comunità si risolvano soprattutto aprendosi di più alle coppie miste e offrendo soluzioni alternative all’emigrare in Israele».

Rav Avraham Hazan, Amministratore delegato della società Eurokosher, ha parlato del concetto di Dina d’Malkhuta Dina, la prescrizione del Talmud secondo cui “le leggi dello Stato vanno rispettate come leggi divine”, poiché se lo Stato è in pace lo sono anche gli ebrei. Dopodiché ha raccontato la storia degli Amoraim, studiosi vissuti in Babilonia dal 200 al 500 circa. Uno di essi, Mar Shmuel (noto anche come Samuel di Nehardea) affermava che dobbiamo essere fedeli alle leggi del Paese in cui viviamo come fossero divine. Affermava inoltre che, se le leggi sono uguali per tutti, gli ebrei devono essere i primi a pagare le tasse, perché lo dice la Torah. Rav Hazan ha concluso citando una delle massime conosciute come Pirkei Avot, secondo la quale gli ebrei devono pregare per il governo, anche se non gli piace, integrarsi senza finire assimilati, e partecipare alla costruzione dello Stato, poiché dal suo benessere dipende il benessere del popolo ebraico.

Alla fine della conferenza è intervenuto Giorgio Mortara, presidente dell’AME (Associazione Medica Ebraica) e vice-presidente del Bené Berith di Milano, il quale ha affermato che il processo di integrazione è diventato più complicato da quando è nato lo Stato d’Israele. Ne è seguito un dibattito, nel corso del quale Betti Guetta ha detto che il tema è molto sentito tra gli ebrei della diaspora, soprattutto perché il sostegno dato a Israele li mette a volte in contrasto con la comunità internazionale. «Sostenere Israele è molto difficile, e dobbiamo difenderci dagli attacchi che una volta venivano dalla stampa e oggi dai social network». Rav Hazan ha sottolineato che c’è una diatriba al riguardo, poiché Israele è uno Stato che è stato fondato da ebrei, ma non si capisce fino a che punto le leggi talmudiche valgano per esso. Paolo Foa ha concluso affermando che non riesce a immaginare un mondo senza Israele, e spera che si possa trovare una soluzione pacifica al conflitto.