di Giorgia Mamè
“Ma figurati è un LUNEDI’ sera.. E poi ormai.. Ci sono già stati tanti altri eventi del festival…”. Queste le risposte che ricevetti quando manifestai le mie preoccupazioni di non riuscire ad arrivare con largo anticipo alla serata al Franco Parenti. E invece!! Tanta gente ha dovuto rimanere fuori dalle porte, è arrivata solo 15 minuti prima dell’inizio sperando di potersi sedere almeno in un angolino ma non era rimasto neppure quello di libero alla “Tisch night”.
Io ebrea sefardita ho avuto bisogno del festival Jewish and the City per scoprire cos’è un “Tisch” e prima di arrivare al Parenti intuisco che per la tradizione askenazita il tisch è una versione – certamente molto più speciale, colta e filosofica – di quelle che io ho sempre chiamato “le chiacchiere del venerdì sera in famiglia”. Quelle attorno alla tavola grande, che visto che “domani è sabato è giorno di riposo..” non c’è fretta di sparecchiare e sistemare e ce la si prende finalmente con calma dopo aver corso tutta la settimana.
E come perdersi l’occasione di “una chiacchierata” a cena con Filippo Timi? Il momento mediatico-teatrale forse più atteso.
Un’apertura semplice quella di Timi. Era seduto su un banco di scuola, al centro della scena con l’occhio di bue puntato su di lui ed enunciava ciò che aveva appreso recentemente da un grande maestro e studioso di ermeneutica biblica, Haim Baharier.
Semplice ma al contempo spettacolare. Preludio di una serata conviviale della quale va ringraziata inequivocabilmente la direttrice e responsabile unica del teatro Parenti, Andrée Ruth Shammah.
Il tisch vero e proprio si è sviluppato poi davvero attraverso le sagge parole di Rav Igal Hazan che ci ha regalato nuovi ed interessanti insegnamenti strappando da subito una risata alla platea come è avvezzo fare nei suoi interventi.
A tavola c’erano inoltre il gallerista Jean Blanchaert, Beppe Severgnini, giornalista dall’ironia arguta e sempre di buon gusto, l’enigmista Stefano Bartezzaghi. Tutti con pensieri e parole legate al tema della disconnessione, dello Shabbat come momento non solo di riposo ma di ricerca di altro, di evasione dal quotidiano, di incontro con qualcosa di diverso: la riflessione e i propri pensieri ad esempio.
Disconnessione storico letteraria quella raccontata da Antonio Scurati che ha coinvolto il pubblico nell’impresa del celebre Anton Čechov, quando nel 1890 decise di attraversare tutta la Siberia diretto all’isola di Sachalin (vero e proprio lager per criminali e prigionieri politici) e forse proprio dall’elaborazione di questa esperienza diversi anni dopo Čechov diede vita ad un capolavoro come Il giardino dei ciliegi. E ancora le descrizioni ricche di fascino dei suoi ricordi, degli odori, dei colori di Masal Pas Bagdadi, scrittrice e psicoterapeuta che ha rammentato un suo shabbat siriano che mi ha portato diretta agli aneddoti sui venerdì di Tripoli narrati mia nonna e ora da mia madre. E per finire Miriam Camerini, regista teatrale che mi ha fatto (lo ammetto sono di parte essendo una mia ex compagna di scuola) piegare in due dalle risate perché sul palco ha raccontato i suoi shabbat più strani e temerari che, neanche a farlo apposta, ha vissuto con i miei compagni di classe della nostra amata Scuola (ebraica naturalmente).
Il Coro Col Hakolot durante i vari racconti ci trasportava coi suoi meravigliosi lechà dodì nell’atmosfera giusta e dalla platea emergevano le note timide di tutti noi che sapevamo bene che era lunedì ma non potevamo fare a meno di canticchiare come a Shabbat.
Un lunedì sera… Ma per tutto il pubblico al Parenti quella sera era un bellissimo venerdì. Shabbat Shalom.